Hebraica
Storie ebraiche lunghe un anno

I migliori articoli del 2021 ospitati nella sezone Hebraica

È nato prima l’uovo o lo shabbat? Betzà, in ebraico, significa uovo. Con questo nome è conosciuto il trattato del Talmud babilonese dedicato a ciò che è permesso e a ciò che è proibito fare nei giorni festivi (Yom Tov) rispetto alle nome che regolano lo Shabbat. In particolare e in concreto, cosa significhi che nei giorni festivi è permesso “preparare il cibo necessario ad ognuno” secondo quel che dice la Torà (cfr. Shemot/Es 12,16). Sembra una questione facile, ma chi si metta a leggere – anzi, a studiare – questo trattato, da poco uscito in traduzione italiana a cura di rav David Gianfranco Di Segni (Giuntina, pp.474, 55 euro), troverà queste pagine davvero toste, un eufemismo per dire molto difficili. Con ben poche aggadot o sezioni narrative, i cinque capitoli della Mishnà commentati in 40 dappim o fogli talmudici che compongono Betzà sono una discussione dopo l’altra tra molte decine di rabbi: amoraim che citano altrettanti tannaim, nel tentativo di giungere a trovare la quadra tra le opinioni della scuola di Shammai, in questa materia sorprendentemente facilitanti ossia meno rigide, e le opinioni della scuola di Hillel, che sta su posizioni più restrittive, più stringenti. Si fa qui ricorso, inoltre, alla logica deduttiva e all’analogica più che all’arte della citazione scritturale (e questo si spiega perché, entrando nel dettaglio dell’halakhà, molte di queste norme sono state fissate dai maestri stessi, sono Torà de-rabbanàn, e non Torà de-oraità, ossia dal Sinai). Infine, per complicare le cose, in diaspora certi giorni festivi sono doppi, ma non in eretz Israel (ad eccezione di Rosh hashanà, che sono due giorni anche in Israele), e come ci si regola quando Yom Tov precede o segue lo Shabbat… Tra domande, spiegazioni, ipotesi, obiezioni, contraddizioni (apparenti o reali), dispute su motivazioni e intenzioni, c’è da perdersi. E allora: benvenuti nel Talmud al suo meglio! Betzà she-noldà be-yom tov… un uovo deposto in un giorno festivo, è permesso mangiarlo oppure no? Dipende dalla gallina, ovviamente. Non è una battuta, sebbene sia inevitabile alludere al noto paradosso se sia nato prima l’uovo o chi l’ha deposto innescando una circolarità blindata. Infatti nel paradosso si cerca di individuare un’origine ontologica inverificabile; nel Talmud invece la discussione è ortopratica – si mangia oppure no? e in base a che? – perché si tratta di capire cosa si può ‘fare’ in un lasso di tempo che la Torà separa da tutti gli altri tempi (Shabbat e le feste comandate) e che viene qualificato dal ‘non fare’. Pars pro toto, l’uovo è simbolo della vita e della morte, i due poli valoriali che ispirano la Torà e l’halakhà: scegliere la vita e non farsi contagiare dalla morte.

Giuditta, eroina dimenticata di Hanukkah. Nel corso della storia culturale ebraica, i Maccabei, sacerdoti devoti e guerrieri alla bisogna, non sono stati gli unici eroi della mitologia di Hanukkah. Inaspettatamente, e a macchia di leopardo, una donna altrettanto eroica è stata al centro della rievocazione di Hanukkah: parliamo di Giuditta. Nonostante il nome eloquente (Yehudit, ossia giudea nel senso di donna abitante la Giudea), Giuditta non è un personaggio tecnicamente biblico come invece altri protagonisti delle feste ebraiche (su tutti, Ester per Purim). Come pure per i Maccabei, il libro dove è narrata la vicenda di Giuditta è infatti trasmesso in lingua greca e, per questo, è entrato a far parte dell’antico testamento cristiano (nella traduzione detta dei Settanta) ma non della Bibbia ebraica, la TaNaKh. La presenza di Giuditta nella cultura ebraica è periferica ma nondimeno importante per riflettere sul nostro rapporto con gli archetipi narrativi, soprattutto quando essi riguardano l’annoso e sovraesposto tema dei ruoli di genere. Giuditta è la classica protagonista-femminile-forte tanto invocata dalle narrazioni contemporanee, siano esse letterarie o cinematografiche. E però Giuditta porta con sé un bagaglio assai scomodo per la nostra sensibilità: Giuditta è violenta. Che la sua violenza sia giusta non semplifica le cose. La violenza di Giuditta è politica perché volta a un bene sì comune ma comunque partigiano, con il quale è più difficile empatizzare rispetto, ad esempio, a un movente biografico di vendetta personale.
La donna come agente di violenza politicizzata sembra essere un rimosso culturale dell’ultimo secolo e mezzo. Basti pensare a come, artisticamente, le Giuditte caravaggesche abbiano progressivamente lasciato il posto di protagonista biblica tosta alle Salomé di Aubrey Beardsley e Alla Nazimova, di Carmelo Bene e Ken Russell. E Salomé è mandante – non esecutrice materiale – di una decapitazione. In tempi più recenti, qualche Giuditta contemporanea ha fatto capolino grazie al revival dei sottogeneri cinematografici dell’exploitation e del rape-and-revenge. È il caso dell’ammazza-nazisti Shoshanna Dreyfus in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino (2009) o della terrorista femminista Cassie Thomas in Una donna promettente di Emerald Fennell (2020).

Giuda Iscariota, il traditore, e il mito fondatore di ogni antiebraismo. Galilea, duemila anni fa. L’ebreo Yehudà diventa (è scelto?) uno dei “dodici” apostoli del rabbi di Nazareth Yehoshuà, nome che in traduzione italiana suona Gesù. Invece Yehudà è passato alla storia come Giuda Iscariota, e nessuno ad oggi sa se Iscariota sia un toponìmico oppure un soprannome. Ma chi era davvero questo Giuda, il traditore per antonomasia (Dante lo pone nel fondo gelido del suo Inferno, con Bruto e Cassio)? Possiamo risalire alla sua vicenda completa e alla sua personalità se incrociamo le fonti storiche? E quali fonti sono disponibili, che non siano già frutto di una interpretazione teologica dei fatti che lo riguardano e che lo associano per sempre alla morte di Gesù? Soprattutto, fu davvero un ‘traditore’ – il peggiore, metafisicamente parlando – oppure non fu che un capro espiatorio? E se invece fosse stato un apostolo fedele? Anzi, un fratello di sangue dello stesso Gesù, che una macchina del fango ha trovolto per farne il polo negativo di una narrazione (un mito) che doveva renderlo il simbolo dell’ebreo qua talis, del perfido giudeo, avido e diabolico, emblema di tutto il popolo ebraico, collettivamente colpevole di non aver abbracciato una certa idea sacrificale di Gesù-messia e, infine, di averlo ucciso? Il ‘caso Giuda Iscariota’ è troppo serio per essere lasciato solo ai teologi o agli esegeti cristiani! Ne era convinto Hyam Maccoby (1924-2004), studioso inglese e per decenni bibliotecario del Leo Baeck College di Londra, discendente di una famosa dinastia chassidica, il quale volle vederci chiaro sulle origini profonde dell’odio antisemita: scava e scava, arrivò agli esordi del cristianesimo e a quello che ritenne il mito-matrice, la saga di Giuda Iscariota che sta incastonata nei racconti evangelici, in particolare in quelli della passione, e che da lì ha generato buona parte degli stereotipi e delle accuse nonché delle infamie che hanno stigmatizzato ebrei ed ebraismo negli ultimi venti secoli. La dettagliatissima ricerca di Maccoby sul ‘caso’, degna di un detective di Scotland Yard e che si legge come un giallo, è racchiusa nel volume Giuda Iscariota e il mito della perfidia giudaica, curato da Roberto Massari, edito dallo stesso Massari editore di Bolsena e da poco in libreria (pp.186, euro 16, con apparati iconografici). Ecco la sua conclusione: “La vera e definitiva soluzione al problema dell’antisemitismo è smantellare il mito cristiano-paolino dell’espiazione”.

“C’erano tre fratelli…”, una fiaba-parabola del maestro Emanuele Luzzati. La parola ‘fratellanza’ è tornata di moda. Tra i musulmani non è mai uscita di corso, con l’influente soggetto politico che ne porta il nome, mentre tra i cattolici – sottratta alla triade rivoluzionaria francese – è stata rilanciata esattamente un anno fa dall’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, sulla scia di un’importante dichiarazione congiunta con il grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb, proprio sul valore della fratellanza. E il mondo ebraico? Non è il tema dei rapporti tra fratelli una delle chiavi del primo libro della Torà? In Bereshit i figli di Abramo, quelli di Isacco e infine quelli di Giacobbe non rappresentano forse altrettanti modelli-chiave di tutte le possibili relazioni fraterne, nel bene come nel male? C’è persino il tema di una sorella, Dina; anzi nel midrash le sorelle, purtroppo dimenticate, diventano di numero pari a quello dei dodici fratelli. Il midrash è una miniera di scavi psicologici e di ammonimenti morali sulle difficoltà delle relazioni, per lo più conflittuali, tra consanguinei, nonché sul dovere ma anche sulla fatica dell’accettazione reciproca e della riconciliazione. Cosa evoca oggi il termine politico “accordi di Abramo” se non un tentativo di ritrovata fratellanza semitica di Israele con i popoli e gli stati della macroregione? Lasciando per un momento sullo sfondo sia le preziose fonti antiche sia l’attualità internazionale, vorrei segnalare – a chi non lo conoscesse – un contributo contemporaneo, scritto e magnificamente illustrato da uno degli artisti più geniali del mondo ebraico italiano, Emanuele Luzzati, di cui quest’anno ricorrre il centenario della nascita.

Che cos’è il tempo? Storia di un’idea lunga 5782 anni. Dobbiamo innanzitutto tenere a mente due cose. In primo luogo il fatto che il tempo è la cornice entro cui si svolge l’intera vita ebraica, uno schema in parte lineare e in parte ciclico al cui interno vengono organizzati passato, presente e futuro. In secondo luogo che un calendario, nel momento stesso in cui organizza il tempo, lo segmenta e qualifica in modo differente nelle sue distinte parti. È dunque una creazione umana che non ha nulla di naturale, anche se viene percepito nella quotidianità come tale; pur costituendo un modo peculiare e arbitrario, cioè libero, di descrivere il mondo, si presenta come un dato, cioè come qualcosa che inerisce alla struttura profonda del mondo stesso. Il concetto ebraico di tempo si sviluppa dunque nell’arco di secoli come impasto di elementi scientifici e liturgici, agricoli e della vita biologica e sociale, in scambio costante e biunivoco con gli universi culturali del vicino oriente antico. Il risultato di questa configurazione originale è un modello in cui il passato non viene tenuto a distanza, bensì innestato sul presente, in modo che i racconti di ciò che è accaduto in epoche remote siano rivissuti, al punto da costituire veri e propri pilastri di una memoria identitaria. Molte pagine del Talmud sono dedicate a stabilire definitivamente un calendario. Quello che emerge, insieme alle opinioni contrastanti, è una dinamica di lotta per il potere e la supremazia tra rabbini che sopravvive in parte alla stessa chiusura del Talmud, arrivando fino al X secolo, quando la subalternità di Gerusalemme rispetto a Babilonia è ormai troppo grande per consentirne il prolungamento e il calcolo astronomico si impone definitivamente per stabilire il ciclo annuale. A grandi linee, tuttavia, nel corso dei secoli della Mishnà e del Talmud il pensiero rabbinico tende a inserire l’intera storia dell’umanità all’interno di una cronologia ebraica che porterà a un metodo di datazione – o meglio, a molti metodi – sulla base degli anni dalla creazione del mondo. Il modello babilonese, che alla fine si impone, stabilisce inoltre che la numerazione del nuovo anno scatti a Rosh Hashanà sebbene la festa, come abbiamo visto, non corrisponda all’inizio del primo mese.Il sistema in vigore attualmente, quello secondo cui tra pochi giorni entriamo nell’anno 5782, con il capodanno nel mese di Tishrì, è quello formulato da rav Yossi ben Halaftà nel periodo della Mishnà. Per molti secoli il suo è stato solo uno dei tanti sistemi di calcolo esistenti che poi, nel X secolo, si è imposto, grazie alla decisione dell’ultimo gaon delle accademie rabbiniche babilonesi, rav Sherira bar Hanina.

“Fedeltà e tradimento” o le ragioni del conflitto intra-ebraico. Giuntina ha da poco pubblicato due racconti del grande scrittore yiddish Chaim Grade (Vilna 1910-New York 1982) con il titolo emblematico Fedeltà e tradimento, tradotti da Anna Linda Callow. Il secondo racconto è in realtà un duello ideologico tra le due anime del giudaismo moderno, quella religiosa e quella laica. Il termine ‘duello’ coglie nel segno, perché i protagonisti sono solo due: il religiosissimo Hersh Rasseyner, chassid e osservante nel solco della spiritualità ascetica del musar, e l’ex religioso, ora maskil e scrittore Chaim Vilner (i cognoni indicano solo la città di provenienza), dove maskil, in questo contesto, significa aderente alle idee propugnate dall’haskalà, dall’illuminismo ebraico. Nel racconto entrambi sono stati allievi della yeshivà di Novaredok, ma Chaim ha voltato le spalle alla tradizione, a quella specifica educazione religiosa, e ha intrapreso studi secolari diventando ‘scrittore’. Nel corso delle pagine, però, le loro vicende biografiche tendono a fare da mero sfondo ai loro discorsi, che sono dispiegati ora dall’uno ora dall’altro come armi per colpirsi a vicenda, così che a risultare centrale è il duello stesso mentre la storia serve piuttosto per incastonarlo e viene piegata al dilemma (fedeltà o tradimento?) che l’editore e la traduttrice hanno scelto per questo volume italiano. Hanno così trasformato l’alternativa in una non meno difficile congiunzione. Duello, armi… il titolo del racconto rispecchia bene quello originale yiddish: “La mia contesa con Hersh Rasseyner”. Contesa traduce krig, che viene allo yiddish dalla sua componente germanica e che, simile al tedesco Krieg, indica il più serio dei conflitti, quello armato, la guerra. Quasi due secoli di accuse e di controaccuse, di sospetti e di veleni – dall’haskalà alla Shoà – sono qui riassunti e contrappunti per veicolare “il conflitto intraebraico” non tra fede e non fede, ma tra due modi diversi di essere fedeli; non tra religione e scienza, ma tra due modi contrapposti di pensare la conoscenza di Dio e del mondo; non tra ortodossia e riforma, ma tra differenti percezioni del modo in cui il giudaismo dovrebbe stare nella modernità.

Perché (e da quando) gli ebrei non mangiano maiale. Si potrebbe dire che la ragione per cui il Signore benedetto ha creato il maiale è perché gli ebrei non lo mangiassero. Ovviamente è soltanto una battuta, come quella della seconda sinagoga, costruita per non mettervi mai piede; tuttavia potrebbe non essere così sciocca come sembra. Quando la Torà (Waiqrà/Lv 11,7) mette il suino nella lista degli animali proibiti al consumo alimentare dei figli di Israele, dà semplicemente i criteri per fare la distinzione tra animali puri e animali impuri, kasher i primi e non kasher i secondi: dei quadrupedi, solo quelli che hanno lo zoccolo spaccato e che ruminano sono ‘adatti’ al consumo; ma tali criteri non ci dicono affatto il perché alcuni siano kasher e altri no. Questa non-spiegazione ha offerto nel corso dei secoli il destro per le più diverse ipotesi, interpretazioni ed esplicazioni, da quelle più scientifiche, connesse all’igiene o all’ecologia, a quelle più simbolico-rituali. E su uesto occorre riflettere:  la Torà non dà una spiegazione. Stando ai criteri posti, il maiale è proibito in quanto, pur avendo l’unghia fessa o spaccata, non rumina. Il secondo fatto è che, ancor oggi, il non-mangiar maiale è percepito come una specie di soglia d’identità, un campanello di auto-coscienza ebraica: molti ebrei non osservano lo shabbat e non pregano, forse non si attengono neppure ad altre regole della kasherut, ma non toccano una fetta di prosciutto. La discussione è lunga e soprattutto delicata. Ai rabbini è attribuita quest’immagine: “Nel mondo futuro il Santo benedetto manderà un messaggero ad annunciare: ‘Tutti coloro [tra gli ebrei] che nella loro vita non hanno mai mangiato carne di maiale riceveranno ciascuno la propria ricompensa; ma anche coloro che tra i gentili non hanno mai mangiato carne di maiale, riceveranno ciascuno la propria ricompensa’. Ma poi ci ripenserà e dirà: ‘Ma se hanno già goduto la loro ricompensa in questo mondo, perché dovrebbero goderne anche nell’altro? Cercano di godere anche del mondo dei miei figli?’”. Buffo modo di ragionare: prima si ‘apre’, ricompensando con i due mondi – di qua e di là – tutti quelli che si astengono dal mangiar maiale; poi si ‘chiude’, riservando il mondo futuro soltanto a Israele… Questa è la dialettica rabbinica in tempi di persecuzioni, come fu l’epoca di Rabbi ‘Aqivà, di Rabbi Shim‘on bar Yochai e di rabbi Meir: universalismo sì, ma temperato con iniezioni di giustizia e con una speranza particolare, ‘etnica’ secondo i nostri archeologici; ‘nazionale’ secondo il patriottismo sionista. Infatti, l’ebreo che mangia maiale – esempio citato, con realismo, nella letteratura yiddish – vuol dire ai suoi correligionari (e a se stesso): ecco, trasgredisco intenzionalmente, quindi mi sono emancipato, mi voglio assimilare, basta con le tradizioni… Salvo che lo dice con il più acuto ed ebraico dei sensi di colpa. Peccato che Freud non ci abbia scritto sopra un libretto dei suoi.

La colpa di Mosè. Tra le vicende vissute dal popolo di Israele durante la quarantennale permanenza nel deserto raccontata nel libro Bemidbar/Numeri, ce n’è una che da sempre i commentatori affrontano con timore e perplessità. Siamo a Qadesh, nel deserto di Tsin, poco dopo la morte di Miriam quando il popolo si rivolge a Mosè e Aronne lamentando di essere stato condotto in un luogo arido e sterile, dove non c’è neppure acqua da bere. Nel racconto della Torà il Signore dice a Mosè di prendere la verga e parlare alla roccia davanti agli occhi del popolo affinché da quella scaturisca acqua e ciascuno, uomo e animale, possa dissetarsi. Mosè allora raduna il popolo, impugna la verga e colpisce la roccia due volte. Dalla roccia zampilla una sorgente che placa la sete degli uomini e del bestiame. Ma il Signore torna a rivolgersi a Mosè e Aronne: poiché non avete avuto fiducia in me santificandomi di fronte agli occhi dei figli di Israele, dice loro, non condurrete il popolo nella terra che ho deciso di dargli. Di tutte le spiegazioni date di questo passo – del comportamento di Mosè e della severità della punizione inflitta a lui e ad Aronne dal Signore – è significativa quella del rabbino spagnolo del Quattrocento Isaac Arama, secondo cui, semplicemente, nessuna delle spiegazioni è soddisfacente. Ironia a parte, l’interpretazione ancora oggi più diffusa dell’episodio è quella che risale al commento di Rashi, secondo cui la colpa di Mosè sta nel colpire la roccia invece di rivolgerle parole. Nonostante l’autorevolezza di Rashi, però, a molti questa lettura è sembrata e sembra non risolvere alcuni problemi. Innanzitutto, se la colpa di Mosè è colpire la roccia invece di parlarle, perché il testo non lo dice chiaramente? Perché il Signore rimprovera a Mosè di non aver santificato il suo nome di fronte ai figli di Israele? Inoltre, come ha notato Maimonide, anche far scaturire acqua da una roccia colpendola con un bastone invece che tramite parole è un miracolo, non meno incredibile di quello che il Signore avrebbe voluto. Come si spiega la punizione, che tra l’altro unisce a Mosè anche il fratello Aronne? Numerosi interpreti sottolineano che la colpa di Mosè viene punita con severità perché da un leader è giusto attendersi una maggiore responsabilità, e da un grande leader la responsabilità massima. C’è però un altro aspetto, notato da molti commentatori, che complica ulteriormente le cose. Nel libro di Shemot/Esodo (17) compare un passo molto simile, una sorta di duplicato dell’episodio di Bemidbar 20. Il problema è che si tratta di un duplicato imperfetto, perché in Shemot è il Signore stesso a dire a Mosè di andare di fonte al popolo, accompagnato dagli anziani di Israele, impugnare la verga e con quella colpire la roccia del monte Chorev, da cui uscirà acqua in abbondanza. Così fa Mosè, conclude il passo, in presenza degli anziani. Colpire la roccia è dunque il modo giusto oppure no per compiere il miracolo?

L’educazione spirituale dello shohet. Devo confessare un pregiudizio intellettuale, da storica della cultura ebraica che non milita in tale cultura: le razionalizzazioni moderne delle ritualità ataviche mi fanno storcere il naso. Mi pare di sentire puzza di bruciato, odore di apologia anti-storica. Quando, ad esempio, si sostiene che il divieto biblico di mangiare carne di maiale sia in fondo ragionevolmente fondato su ragioni di salute alimentare, mi insospettisco istintivamente per l’applicazione di una categoria moderna (il benessere gastronomico) a un sistema di norme e valori che di questa categoria non aveva coscienza. È vero che il bisogno stesso di razionalizzare regole rituali di cui non si capisce il senso – come quelle del Levitico – è piuttosto antico. Già nel dodicesimo secolo Maimonide, da rabbino e da medico, si era prodigato sistematicamente a chiarire i ta‘ame ha-mitzwot, il “sale” in zucca ai precetti ebraici. Rimane però il fatto che queste sovrapposizioni delle ragioni nostre a sistemi altri suonano imprecise alle orecchie dello storico, che, per deformazione professionale, li esaminerà sotto la sua presuntuosa lente antropologica.
Talvolta, infatti, lo sguardo scientifico pecca di presunzione – ed ecco, appunto, il mio caso. Parlando di razionalizzazioni postume, l’approccio animalista alla macellazione kasher (tale per cui la tecnica di recisione secca della gola causerebbe meno dolore all’animale) mi avrebbe fatto pensare a una sensibilità piuttosto contemporanea. Con mio stupore, invece, mi sono trovata davanti a una tradizione speculativa sul tema del rapporto tra umani ed animali (da triangolare, di riflesso, con Dio) quattro secoli almeno più vecchia di quanto, per ignoranza, mi sarei aspettata. L’occasione è stata la lettura di una sezione da un trattato ebraico di morale pubblicato nel 1712, lo Shevet musar (Verga del castigo) di Elia ha-Kohen Itamari, rabbino ottomano di stanza a Smirne tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. Il capitolo 36, dedicato all’educazione spirituale dello shohet, o macellaio rituale, tinge la questione di risvolti teologici e psicologici inattesi: perché, oltre ai macellatori e ai macellati, entrano in gioco anche le anime dei defunti. In questo senso, il rapporto con gli animali è esemplare. Essi sono affini all’uomo perché, come l’uomo, rappresentano il corrispettivo carnale della divinità. Non solo: nella loro materialità, accolgono le correnti di spiritualità che attraversano il creato, rendendolo vivo come vivo è il Dio Vivente. Ciò che conta, infine, è il risultato: “Ciascuno sia timorato, rispettoso e di buon cuore con la vita degli animali”, conclude Itamari a chiusura di un racconto eloquente riportato al capitolo 18 dello Shevet musar. L’aneddoto non ci rivela se quel signore di Castiglia abbia messo mano alla saccoccia e salvato il toro dalla trista morte per mano di un matador, così da consegnarlo alle mani più sapienti di uno shohet che ne preparasse le carni come si deve per il piacere dell’intera comunità, liberando così l’anima del padre dalla sofferenza bovina. Vogliamo proprio sperare di sì. E per festeggiare il lieto fine, abbiamo due opzioni: banchettare di solomillo, o controfiletto, anche noi come quegli ebrei castigliani o, per contrappasso, contemplare un virtuoso, integro e pio piatto di verdure. Che male non farà, a noi e alla natura. Visto che, in fondo, microcosmo e macrocosmo sono la stessa cosa.

La gioia nella tradizione ebraica. Rallegrarsi, gioire, stare lieti, festaggiare… il giudaismo (e non solo la sua versione chassidica) è una tradizione religiosa che conosce e apprezza e insegna la gioia e persino comanda di vivere questa attitudine del cuore nella maggior parte delle sue feste. Due volte in Devarim/Deuteronomio si ordina di essere gioiosi (16,10-11; e ancora vv. 14-15). In Waiqrà/Levitico 23,40, sempre a riguardo della festa di Sukkot, la gioia è elevata a mitzwà, a precetto, per sette giorni. Il Talmud riprende e approfondisce tale precetto: “Rallegrarsi durante una festività è dovere religioso. Come è insegnato a nome di Rabbi Eli‘ezer: Che altro farà un uomo nel giorno di festa se non godere dei beni leciti come mangiare e bere, oppure studiare? E Rabbi Jehoshua suggeriva [per risolvere il dubbio di come allocare il tempo festivo]: dividi la festa, per metà mangia e bevi e per metà studia” (Bavli, Pesachim 68b). Dunque un po’ è joie de vivre e un po’ l’intima felicità di essere in contatto con la Rivelazione, ossia la dimensione più alta dello spirito e il senso più profondo della vita, che gli ebrei attingono attraverso lo studio della Torà e dei maestri. Nella lingua ebraica vi sono molti termini che indicano gioia: ghila, rinà, ditzà (che vuol dire anche danza), chedvà (dalla radice chadà, che significa ‘rifulgere’), tzehalà (con la sfumatura di cantare inni), ‘onegh (riferito allo shabbat) e, naturalmente simchà e sasson, i due termini più usati, specie nel contesto della gioia delle nozze: dopo la felicità teologica, ecco la felicità e i legittimi piaceri coniugali, tra uomo e donna. Persino nel pessimistico Qohelet, desolato cantore della vacuità dell’esistenza, la parola ‘gioia’ appare ben diciassette volte! E oggi l’esultanza è il tema centrale dello Yom ‘atzmaut, il giorno dell’indipendenza dello stato di Israele, salutato come mo’ed le-simchà le-gheulà shlemà, una festa gioiosa per una redenzione completa.
La controprova che gioia e letizia sono una qualità costitutiva della spiritualità ebraica è offerta dai frequenti ammonimenti a fuggire la tristezza e quella mestizia interiore che spegne gli slanci e inibisce la fantasia. Nessuna corrente poi ha celebrato l’allegria e i piaceri (legittimi, anzi doverosi) della vita più del chassidismo, che ha fatto della gioia uno dei suoi tratti distintivi. A questo riguardo aneddoti e aforismi sono una marea da cui si può pescare ex abundantia. Rabbi Chanoch di Alexander, un discepolo di Rabbi Simchà [Rabbi Letizia, come nome maschile!] Bunam di Psyshà, della scuola del Veggente di Lublino, insegnava: “La tristezza è la peggior qualità dell’essere umano: essa non è di per sé un peccato, ma nessun peccato indurisce il cuore quanto la tristezza”. Ne consegue che, ebraicamente, esiste non tanto il diritto quanto il dovere di essere contenti.
Quanti nomi ha Dio? Esiste un detto popolare ebraico, annotato nel libro di Samuele (25:25), che indica che il nome di una persona ha a che fare con il suo carattere e il suo modo di essere: Kishmo ken hu – Egli è come il suo nome. Nella tradizione ebraica il nome quindi non serve solo a riconoscere e identificare qualcuno ma rappresenta l’essenza stessa di quella persona, rispecchia ogni sua caratteristica. 
Ricorda Jonathan Pacifici in un commento alla Parashà di Vaerà, che si legge questa settimana, che “La prima cosa che Adamo fa, appena creato, è dare dei nomi a tutto ciò che riempie il mondo. Il nome è identità. Nell’ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche dell’individuo”.
È per questo motivo che i nomi per la tradizione ebraica vanno trattati con lo stesso rispetto che riserviamo agli esseri viventi, e se ciò è valido per l’uomo, lo è ancora di più per Dio. Districarsi tra divieti e pluralità di nomi può non essere semplice: Abramo, Isacco e Giacobbe conoscevano Dio come El Shadday, Mosè come YHVH, fino a qualche anno fa gli ebrei ortodossi si servivano della parola Adonai, oggi utilizziamo più frequentemente HaShem. È come se Dio ci stesse dicendo di attendere ancora per conoscere il Suo Nome, che questo prima o poi verrà annunciato. “Dio è inestricabilmente legato al concetto di Rivelazione, e la Rivelazione è progressiva” spiega Rabbi Jordan D. Cohen in un articolo dal titolo Il nome di Dio in evoluzione, e aggiunge “scopriamo sempre più sul nome di Dio con il passare del tempo, lentamente, arrivando a un livello di conoscenza via via più alto. Dio è concepito da ogni generazione in modo diverso, e in forme differenti anche da ogni persona all’interno della stessa generazione”.
Perciò, anche se Dio è uno, unico e assoluto, esistono cento e più modi per chiamarlo, nominarlo e per rivolgersi a lui. Se ci affidiamo anche noi al concetto di rivelazione possiamo credere che ognuno arriverà un giorno a conoscere e chiamare Dio, non nel modo giusto, ma a modo proprio e nel momento più opportuno.
Giochi di carte e di parole: una lettura cabalistica dei tarocchi. Rota / taro / tora è un anagramma dall’aura misterica reso celebre dall’occultista del XIX secolo Eliphas Lévi nel libro La storia della magia (1860), dove è attribuito all’autorità esoterica dell’umanista poliglotta francese Guillaume Postel (1510–1581). Come suggerirebbero la ripetizione e il rimescolamento delle lettere che compongono le tre parole, ruota / tarocchi / torah non costituirebbero entità estranee le une alle altre: i cicli dell’universo, predeterminati o casuali che siano, le carte come strumento divinatorio e la sapienza ebraica possono essere letti come facce differenti con cui codificare la realtà esteriore e soprattutto interiore – e possono anche funzionare assieme.La storia dei tarocchi come oggetto culturale è ben più complessa e meno sacrale di come le diverse tradizioni esoteriche fanno sembrare: più che di atavici simboli di universalità (più antica sembra una cosa, più ci illudiamo che sia vera), i tarocchi erano in effetti un mazzo di carte nato come gioco in Europa nel Rinascimento – e consacrato come mezzo di divinazione solo un paio di secoli più tardi. Nel mondo fervido di sincretismi culturali che è l’esoterismo moderno, non mancheranno le combinazioni tra taro e tora, tra tarocchi e sapienza ebraica. È il caso del mazzo di tarocchi elaborato da Oswald Wirth (1860–1943), occultista svizzero perito, tra l’altro, di cartomanzia e massoneria. Qui troviamo associata a ciascuno dei 22 arcani maggiori dei tarocchi una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico.
E, per chi sappia maneggiare la lingua ebraica, le possibilità di divinazione – o, forse, di gioco – si moltiplicano: dall’estrazione di un set fortuito di carte si potrà ricavare non solo l’interpretazione di una combinazione di simboli visuali ma anche, alle volte, la lettura di una parola, aggiungendo senso ulteriore a quel che il Caso o il Destino hanno posto davanti agli occhi. Non è però l’unica via di ricerca di messaggi asconditi: vale infatti anche il procedimento inverso. Ovvero, una parola ebraica può essere scomposta negli arcani corrispondenti alle lettere che la compongono, aprendo uno spiraglio immaginativo e inaspettato fatto di congiunture arbitrarie e accidentali – e, proprio per questo, poetiche.Perché allora non tentare un esperimento poetico, per l’appunto? Quello passato è stato un anno dove la scienza ha fatto – giustamente – da padrona. A mo’ di rito di passaggio, concediamoci un po’ di poesia e magia, senza pretese. Prendiamo allora – come si suole a inizio annata solare – l’oroscopo: cosa avrà da dire ciascun segno dello zodiaco quando interrogato “cabalisticamente”? Ecco dunque un frammento visivo per ciascuna delle combinazioni di tarocchi che corrispondono al nome ebraico dei segni zodiacali. In fondo, è pur sempre un gioco.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.