Cultura
Yitzhak Rabin, un ritratto a 25 anni dalla morte

Biografia di un soldato premier

Soldato e premier d’Israele, Yitzhak Rabin, nel corso della sua vivace esistenza, ha rappresentato la quintessenza dello Stato ebraico, dagli anni della sua costituzione fino alla lunga e complessa stagione negoziale con la controparte palestinese, poi velocemente esauritasi. La sua stessa morte, per mano di un assassino ebreo, ne è una sorta di suggello, raccogliendo in sé potenzialità ma anche limiti, linearità così come contraddittorietà di una traiettoria che, dalla dimensione personale, diventa quasi subito biografia politica e quindi storia collettiva. In altre parole Rabin non è solo un importante esponente di quelle generazioni di leader, succedutesi nel corso del Novecento, che hanno dato forma e sostanza ad una nuova comunità politica, concorrendovi poi a rafforzarla sia nello scenario regionale che in quello internazionale, ma è anche una sorta di figura paradigmatica. La sua esistenza, le sue scelte, testimoniano di ciò.

Di quale paradigma, peraltro, non è facile dirlo. Non da subito, quanto meno. Così come le sue scelte ci restituiscono il senso di una coerenza difficile, tale poiché costantemente obbligata a confrontarsi con il mutamento degli scenari, con i dilemmi del rapporto tra forza, azione e risultato in un contesto dove le decisioni hanno sempre avuto un carattere dilemmatico. Sia per le difficili premesse, quindi in ragione dell’elevato grado di incertezza, sia per la complessità nella gestione dei risultati ottenuti di volta in volta, molto spesso non riconducibili ad un unico fattore. Anche per queste ragioni è impossibile definire in un unico modo il suo profilo che, come spesso è capitato tra le élite d’Israele, racchiude in sé il lungo percorso di militare di professione, di politico di carriera, di esponente di una società dove le linee di divisione tra civile e militare, tra guerra e pace, tra pubblico e privato sono sempre state incerte poiché continuamente spostate non solo dal peso degli eventi ma anche dall’evoluzione dell’identità collettiva.
Ecco, forse un primo punto da cui partire è proprio l’involontaria quanto spontanea capacità che Rabin ha manifestato nel diventare uno degli specchi della società israeliana in circa cinquant’anni dell’esistenza di quest’ultima. Attraverso la sua personale biografia, completamente interna alle dinamiche dell’insediamento ebraico prima e dello Stato poi, si può leggere in controluce una storia collettiva. La genealogia famigliare aiuta quindi ad inquadrare meglio la persona, prima ancora che il futuro personaggio.

Yitzhak Rabin era figlio di due immigrati nella Palestina mandataria durante la terza Aliyah (quella avvenuta tra il 1919 e il 1923). Il padre, Nehemiah (nato nel 1886 e morto nel 1971), era nato a Sydorovychi, un villaggio nella regione meridionale dell’allora Zona di insediamento coatto, voluta dagli zar come area cuscinetto tra la Russia e l’Europa occidentale. Attualmente quella porzione di terra è in Ucraina. Il nome d’origine della famiglia paterna era Rubitzov. Nehemiah, figlio di Menachem, era stato velocemente avviato al lavoro dopo la prematura morte del padre. Una condizione molto comune tra molti Ostjuden, gli ebrei orientali, che a cavallo tra due secoli vissero le temperie del cambiamento cercando di non esserne travolti. Menachem, nel 1904, seguendo il flusso consistente dei processi migratori ebraici, si trasferì negli Stati Uniti, entrando a fare parte del Poale Zion (i «Lavoratori di Sion»), movimento di area marxista, che tuttavia aveva fatto propria l’opzione nazionale praticata dai sionisti, in opposizione al Bund. La storia della sinistra ebraica si intrecciava in quegli anni con il coacervo delle migrazioni, segnando un decisivo cambio di passo nella considerazione di sé di molti ebrei, con la crescente volontà di intervenire nei processi storico-politici, divenendone protagonisti attivi. Nel 1917, Nehemiah, che nel frattempo aveva mutato il suo cognome in Rabin, arrivò nella Palestina ottomana, oramai sotto il controllo britannico, insieme ai volontari della Jewish Legion, il nome che era stato informalmente assunto, in ragione della volontà dei suoi appartenenti, per qualificare i cinque battaglioni di combattenti ebrei del corpo dei Fucilieri reali dell’esercito britannico, impegnati nella lotta contro l’Impero ottomano durante la prima guerra mondiale.
La madre di Yitzhak, Rosa Cohen (1890-1937), era invece nata a Mogilev, in Bielorussia. Suo padre era un rabbino, ostile al movimento sionista che in quegli anni contendeva la scena politica ad altri protagonisti, in un generale processo di coinvolgimento della collettività ebraica nella partecipazione attiva ai mutamenti in corso in tutta l’Europa orientale. Rosa fu mandata a studiare in una scuola femminile non ebraica, a Gomel, dove ben presto venne coinvolta dai fermenti culturali e sociali allora vivacissimi. Nel 1919 emigrò anche lei nella Palestina britannica, lavorando in un primo tempo in un kibbutz sulle rive del lago di Tiberiade per poi trasferirsi a Gerusalemme. Nehemiah e Rosa si incontrarono nel 1920, durante la rivolte del Nebi Musa, quando nella città vecchia di Gerusalemme si moltiplicarono gli scontri tra nazionalisti arabi e la componente ebraica. Nel 1922 nacque Yitzhak. I due giovani si spostarono quindi a Tel Aviv nel 1923. Nehemeiah divenne un dipendente della Palestine Electric Corporation mentre Rosa, di professione contabile, ben presto si impegno nell’attività politica locale, entrando a fare parte del consiglio comunale della città ebraica.
Il giovanissimo Yitzhak crebbe quindi a Tel Aviv. Nel 1928, a sei anni, fu iscritto alla Beit Hinuch Leyaldei Ovdim (la «scuola per i figli dei lavoratori»), un istituto ispirato ai principi del sionismo, dove nel 1935 completò un primo ciclo scolastico. Del giovanissimo Rabin si ricordano i buoni voti ma anche una sua congenita timidezza, che lo rendeva difficilmente avvicinabile da parte del resto della piccola comunità studentesca, preferendo semmai impegnarsi per conto suo, negli studi come in altre attività. Nel 1935 transitò quindi alla scuola di agraria del Kibbutz Givat Haslosha dove iniziò ad acquisire le prime cognizioni in campo militare. Da giovanissimo militante entrò nell’Haganah, la milizia che andava costituendo l’ossatura di quello che sarebbe divenuto il futuro esercito israeliano. Risale a quegli anni anche la sua affiliazione politica all’Histadrut HaNoar HaOved VeHaLomed (la «Federazione dei giovani studenti e lavoratori»), movimento di ispirazione socialista, parte del complesso arcipelago di gruppi, organizzazioni e associazioni nelle quali si articolava la sinistra sionista e nel quale militò anche l’alter ego antagonista di Rabin, ovvero Shimon Peres.
Nel 1937 il giovane Yitzhak si iscrisse al liceo agricolo Kadoorie. La sua intenzione, in sintonia con lo spirito dell’epoca, dove nelle aree urbane prevaleva l’ebraismo “borghese”, quello composto da commercianti ed artigiani nonché da piccoli imprenditori industriali, mentre in quelle rurali si corroborava la componente del sionismo più legato ai progetti di palingenesi sociali, era di diventare un ingegnere idraulico, dedicandosi all’agricoltura. Tuttavia, le tensioni con la popolazione araba, che avevano portato al lungo ciclo di violenze – la Thawra Filasṭīn (la «rivoluzione della Palestina»), che tra il 1936 e il 1939 attraversò l’intera regione – contrapponendola agli ebrei, incentivarono il coinvolgimento di Rabin nella militanza politica e nell’attività militare. A Kadoorie e al Kibbutz Ginosar fu addestrato da Yigal Allon, all’epoca giovane sergente, poi futuro generale e quindi politico di rango nelle tumultuose file dei laburisti.
Che la progressiva trasformazione delle milizie sioniste in un esercito nazionale fosse anche un fatto di natura eminentemente politica, all’epoca era forse un dato ancora scarsamente comprensibile al diciottenne Yitzhak. Stava comunque divenendo una delle discriminanti su cui si sarebbero giocate le sorti dello Stato a venire. Qualcosa del tipo: guerra e funzioni militari sono cose troppo importanti per essere lasciate ai soli professionisti delle armi. Ragion per cui, non potendo fare a meno di questi ultimi – tra gli anni Trenta e Quaranta tuttavia ancora tutti in via di formazione – è fondamentale tenerli sotto un cappello politico, obbligandoli non solo a rispondere agli uomini delle istituzioni ma anche a sentirsene parte responsabile. Nessun corpo separato, quindi. La commistione tra politica, istituzioni ed esercito risulterà infatti decisa nella capacità del piccolo Stato di nascere, crescere e continuare ad esistere. Quasi a volere dire che il rapporto tra sfera civile e ambito militare dovesse risolversi da subito in una relazione di reciprocità senza interruzione.
Che per il giovanissimo Rabin la partita iniziasse a diventare strategica, lo si capì peraltro quando, nel 1940, con la conclusione del suo ciclo di studi a Kadoorie, avendo in ipotesi di trasferirsi, grazie ad una borsa di studio, all’Università di Berkeley in California, decise infine altrimenti. Sarebbe rimasto dove era nato e cresciuto, risparmiandosi di divenire un ingegnere idrico. Non si trattava di una scelta da poco. In quanto l’agronomia e tutte le competenze ad essa legate svolgevano allora una funzione strategica nella Palestina mandataria. Si trattava non solo di un sistema concertato di precisi ruoli professionali, tra di loro interagenti per dare seguito all’economia ebraica, ma anche del rimando ad un immaginario fondamentale, che stava producendo concreti risultati. Ciò che era legato all’attività ergonomica, dissodando i campi e trasformando attivamente la natura, era il suggello dell’ebreo “sabra”, nato in terra palestinese, completamente capace di autodeterminarsi con le sue sole risorse, quindi fortemente legato all’agire produttivo e, con esso, al lavoro rurale. Quest’ultimo, invece, del tutto precluso quando l’emancipazione era ancora negata agli ebrei diasporici.

Fucile ed aratro, pallottole ed acqua, sudore e fatica divenivano, in una tale idealizzazione, i due capi di una linea continua, i due estremi di un medesimo percorso. Che per il giovane militare-militante si sarebbe risolto sul terreno, con il controllo fisico della terra, attraverso la costruzione di qualcosa di cui voleva a quel punto essere parte attiva. Non a caso, quindi, durante il suo soggiorno al kibbutz Ramat Yohanan, nella regione orientale del distretto di Haifa, entrò a fare parte del Palmach. Acronimo di Plugot Mahatz (le «compagnie d’assalto»), tra il 1941 e il 1948, ovvero fino al momento del suo repentino scioglimento, la piccola organizzazione militare costituì l’ossatura della forza combattente dell’Yishuv. Peraltro, lo stesso scioglimento sarebbe avvenuto in ragione di una specifica volontà politica di David Ben Gurion, che ne giudicava severamente l’elevata politicizzazione: al suo interno militarono infatti molti esponenti della sinistra, come Mati Peled, Yair Tsaban, Moshe Dayan, Haim “Kidoni” Bar-Lev, Mordechai Gur, come anche figure della destra nazionalista, quali Rehavam Zeevi e Rafael Eitan.
Una piccola parantesi, al riguardo, si impone: il ruolo principale del Palmach era essenzialmente quello di avviare all’addestramento militare le leve più giovani. Benché le sue file non sarebbero mai arrivate a contare più di qualche migliaio di effettivi, tuttavia il contributo apportato alla cultura militare e, più in generale, all’ethos collettivo, alla “religione civile” del futuro Stato, sopravanzò di molto le reali dimensioni dell’organizzazione. Di fatto costituì anche il vivaio dal quale l’esercito israeliano avrebbe ricavato non solo un grande numero dei suoi migliori comandanti ma anche quella vera e propria ossatura che definì l’operatività ed il pensiero strategico dell’Alto comando delle Forze di difesa israeliane almeno fino agli anni Sessanta. Così come la sua intelligence. Non a caso la cornice dentro la quale il Palmach operò coniugava la formazione (non solo militare) al lavoro e alla capacità di provvedere a molti aspetti di un obbligato autosostentamento. In un regime di sostanziale autonomia dei singoli reparti, ognuno d’essi legato ad uno dei kibbutzim. Poiché se in un primo tempo i britannici pensarono di addestrare le unità combattenti, dopo la conclusione vittoriosa della campagna del Nord Africa, con la sconfitta italo-tedesca, di fatto ne decretarono lo scioglimento formale. Che tuttavia non avvenne, facendo invece in modo che l’intero organigramma e le strutture operative venissero rigenerate come forza ebraica indipendente, operando a diretto contatto con il territorio palestinese e con le unità produttive agricole (secondo un programma, Ach’shara Meguyeset, che univa attività nei campi, formazione militare ed educazione politica).
Di fatto ciò costituì una fondamentale risorsa per l’Haganah, la forza militare sionista che andava rafforzandosi, ma anche motivo di attrito per via della spiccata propensione all’autonomia che le compagnie esprimevano. In un succedersi di situazioni a volte contraddittorie, soprattutto laddove l’addestramento operativo e teorico, in particolare degli uomini che avrebbero poi assunto posizioni di comando, era sì funzionale al nuovo esercito, tuttavia ponendosi sempre più spesso in una competizione di leadership che avrebbe infine determinato la conclusione dell’esperienza delle unità di élite. Di tutto questo, e di altro ancora, Yigal Allon era uno dei capofila, anche se poi, malgrado l’onorevole corso politico-militare, non avrebbe mai raggiunto la massima carica, quella di premier, se non per un brevissimo periodo, ad interim, prima che gli subentrasse Golda Meir.

Allon fu comunque il vero mentore di Rabin, insieme a Moshe Dayan. Nel 1943, per la prima volta al giovane soldato, fu affidato il comando di un plotone, a Kfar Giladi, nella Galilea settentrionale, in quella che sarebbe poi divenuta la linea armistiziale con il Libano. Le vicende successive lo avrebbero quindi visto tra i protagonisti della lotta contro la presenza mandataria britannica, fino a raggiungere, nell’ottobre del 1947, il ruolo di capo delle operazioni del Palmach. Di fatto, a quel punto, era un leader militare di spessore, nonostante l’ancora giovane età. Durante la Guerra d’Indipendenza (1948-1949) fu impegnato sia nelle operazioni a Gerusalemme che nell’azione per contrastare la presenza egiziana nel sud, ossia nel deserto del Negev. Nella futura capitale d’Israele comandò la brigata Harel, impegnata a garantire il collegamento vitale con Tel Aviv, nonché a contrastare l’autonomia delle forze dell’Irgun, espressione della destra revisionista, partecipando in tale veste all’«affare Altalena», quando nel giugno del 1948 si arrivò al confronto armato tra i membri del neonato esercito israeliano e le forze paramilitari ebraiche che non intendevano riconoscersi nel comando unificato. Successivamente, con la conquista di Ramla e Lod, Rabin fu corresponsabile nelle operazioni che portarono all’esodo delle locali comunità arabe.

Yitzhak Rabin, 1967

Nel mentre, si era sposato con Leah Schlossberg, giornalista che lavorava per la stampa del Palmach. Il primo incarico non strettamente militare lo assunse a 27 anni, quando venne aggregato alla delegazione israeliana che partecipò ai colloqui di pace di Rodi, che posero termine, nei primi mesi del 1949, alla prima guerra d’Israele. Di fatto, con la prima smobilitazione delle forze armate seguita all’accordo, Rabin era già tra i membri con maggiore anzianità di servizio nel Palmach. All’epoca, vicino come molti suoi colleghi alla sinistra socialista (se non social-comunista), tra l’Ahdut HaAvoda («l’Unità del lavoro»), di tendenza filosovietiche e il Mapam (Mifleget HaPoalim HaMeuhedet, «Partito unificato dei lavoratori»), fu tra quanti si esercitarono in un lungo conflitto, condotto dietro le quinte, con un Ben Gurion che osservava la leva di comandanti e di ufficiali troppo “a sinistra” come un pericolo per la stabilizzazione di Israele. Una parte di essi abbandonò quindi le file dell’esercito entro il 1953, mentre quelli che rimasero, tra cui lo stesso Rabin, Bar-Lev e David Elazar subirono gli effetti di un rallentamento dei loro profili di carriera. Rimane il fatto che un ancora giovane Rabin fu prima a capo del comando settentrionale delle Forze di difesa israeliane, tra il 1956 e il 1959, poi, con l’avvento di Levi Eshkol come primo ministro, ed un Ben Gurion a quel punto detronizzato, dal 1964 capo di stato maggiore dell’esercito.
Rabin, poco più che quarantenne, esercitava un forte ascendente su Levi Eshkol, condizionandone una parte importante del suo decision making. Sta di fatto che sotto il suo comando Israele vinse la Guerra dei sei giorni, nel 1967, garantendosi una formidabile “profondità strategica” ed il controllo di tutta Gerusalemme. Un successo sfolgorante, ottenuto, raccontano i testimoni di allora, dopo una snervante preparazione e un esaurimento nervoso che aveva per un certo periodo di tempo condizionato il comandante in capo dell’esercito.
A quel punto il quarantacinquenne Yitzhak Rabin sembrava essersi garantita la gloria imperitura. Il successo era tale da “impedirgli” di continuare a fare il comandante militare. Secondo una prassi comune in Israele, al ritiro dal servizio attivo seguì, nel 1968, la sua nomina ad ambasciatore negli Stati Uniti. Un incarico prestigioso, in genere un sicuro trampolino di lancio verso le massime cariche politiche ed istituzionali. Un ruolo che accentuò quell’implicito conflitto con Shimon Peres, che avrebbe poi accompagnato il resto della sua esistenza. Quest’ultimo, eminenza grigia del laburismo israeliano, andava infatti disegnando il suo ruolo di primo attore, incontrando sulla sua strada la vivace e combattiva presenza del palmachnik. Dopo la problematica guerra dello Yom Kippur, dove Rabin non prestò servizio attivo ma nel corso della quale negoziò con Kissinger e Nixon le strategiche forniture militari, esaurito l’incarico diplomatico fu eletto come deputato alla Knesseth, nelle liste laburiste, per poi diventare, con la primavera del 1974, leader del partito, allora conosciuto come Alignment.
A quel punto, il confronto con Peres si era già tradotto in rivalità aperta. Rabin succedette quindi a Golda Meir nella premiership il 3 giugno del 1974, presiedendo un governo di coalizione e mantenendo il mandato fino all’aprile del 1977. I due risultati più importanti sotto il suo dicastero furono i passi di avvicinamento con l’Egitto, quando pose le premesse per i successivi accordi di pace, firmati poi da Menachem Begin, il leader della destra a quel punto asceso al potere, nonché l’operazione ad Entebbe, quando nella notte tra il 3 e il 4 luglio 1976 con una abilissima azione militare, riuscì a far liberare i passeggeri di un volo dell’Air France proveniente da Israele e dirottato nella capitale ugandese. Le non facili relazioni con gli Stati Uniti del presidente Jimmy Carter, e il progressivo declino della capacità politica e coalittiva dei laburisti, furono alla radice, insieme ai cambiamenti nel frattempo intervenuti nella società israeliana, della clamorosa vittoria della destra alle elezioni del maggio del 1977. Nel mentre, il quotidiano Haaretz, per la penna di Dan Margalit, aveva sollevato la polemica su un conto bancario dei coniugi Rabin, depositato negli Stati Uniti, in deroga alle norme valutarie israeliane. Le successive vicende legate all’evoluzione di questo caso, portarono alle dimissioni di Rabin dal partito e anche alla mancata ricandidatura a premier.

Si aprì quindi un periodo di relativa marginalità politica. Rabin continuò a fare politica, prima come deputato e membro delle commissioni difesa e affari esteri poi, dal 1984 al 1990, come ministro della Difesa in una serie di governi di coalizione nazionale, guidati da Yitzhak Shamir e Shimon Peres. Anche in questo periodo di interregno di Rabin si ricordano soprattutto due opzioni politico-militari significative: la prima di esse fu il ritiro delle truppe israeliane presenti nel Libano dal 1982, con l’operazione «pace in Galilea» (Mivtsa Shalom HaGalil), in una fascia di sicurezza organizzata come area cuscinetto tra la linea armistiziale e il territorio meridionale del Paese dei cedri; la seconda fu la decisione, perseguita con una determinazione che gli fu a lungo contestata dai suoi oppositori e da una parte della stessa società israeliana, di procedere con durezza nella repressione delle manifestazioni di opposizione palestinese in Cisgiordania. La linea del “guanto di ferro” derivava peraltro, oltre che da valutazioni politiche proprie, anche dalle crescenti richieste in tal senso formulate da diversi dei suoi interlocutori, a fronte della mancanza di un chiaro indirizzo di fondo sull’amministrazione dei territori conquistati dopo il 1967 ed abitati da una popolazione quasi esclusivamente araba. Di fatto, con la prima Intifada, tra il 1987 e il 1993, le misure di rigore adottate dalle autorità israeliane si rivelarono di scarsa produttività, coalizzando l’opposizione palestinese, garantendole un credito dinanzi all’opinione pubblica internazionale e rivelando le difficoltà crescenti in cui si trovava Israele rispetto alla questione strategica del futuro della Cisgiordania.
Esaurito il suo incarico di ministro, tra il 1990 e il 1992 tornò a svolgere le sue funzioni parlamentari nella commissione difesa. In prossimità della tornata elettorale del 1992 Yitzhak Rabin sconfisse il suo antagonista Shimon Peres nella nomination alla presidenza del partito laburista. Giocando d’attacco, condusse quindi una vincente campagna elettorale contro il Likud del premier uscente Yitzhak Shamir. A quel punto, dopo la vittoria alle urne, guidò il suo partito alla formazione del primo governo a matrice laburista dopo quindici anni di sostanziale subalternità. Il gabinetto che ne derivò, destinato a durare tre anni, fino al novembre del 1995, era una coalizione con il “nuovo” Meretz (un’alleanza tra tre formazioni minori, il Ratz, il Mapan e lo Shinui) e il partito religioso Shas, contando inoltre sul voto esterno dei comunisti di Hadash e dell’Arab Democratic Party.
In tale veste, Rabin fu tra i protagonisti di primaria grandezza degli accordi di pace di Oslo. Di fatto la sua carriera non solo politica ma anche civile e morale raggiunse in quelle difficilissime circostanze il suo apogeo. Poiché allora sembrò che la pace con la controparte palestinese fosse oramai in dirittura d’arrivo. La medesima complessità degli accordi, la loro scansione temporale, le verifiche previste nel merito della loro attuazione, il sostegno dell’Amministrazione statunitense, l’idea che da ciò sarebbe potuto derivare un «nuovo Medio Oriente» erano considerati i fattori decisivi per l’implementazione negoziale. Rabin faceva valere la sua credibilità come capo militare e leader politico, incontrando il sostegno di una larga fetta della popolazione israeliana ma anche la crescente opposizione di altre componenti. Oltre al fuoco di fila delle organizzazioni del radicalismo terroristico palestinese, come Hamas e le declinanti componenti laiche del fronte del rifiuto ad oltranza. Una lunga ondata di attentati alimentò un crescente scetticismo, facendo quindi scemare le speranze. Gli accordi politico-diplomatici, senza il sostegno diffuso della società civile e il concorso attivo da parte palestinese, incontrarono quindi sempre maggiori difficoltà a tradursi in un percorso a progressione certa.
Peraltro il governo Rabin è ricordato come uno dei dicasteri che più si adoperò nel processo di privatizzazione dell’economia nazionale, introducendo robuste riforme nel sistema di offerta pubblica. Al riguardo Moshe Arens, esponente di primo piano del Likud, parlò all’epoca di «frenesia di privatizzazione», soprattutto laddove si riferiva al programma di incentivi fiscali rivolti alle imprese finanziarie che avessero investito in Israele. In circa tre anni Israele fu investito da un’ondata di trasformazioni che sarebbero poi proseguite nel tempo, a partire da una radicale modernizzazione delle infrastrutture di trasporto e della stessa edilizia.

Nel 1994, insieme a Shimon Peres e a Yasser Arafat, fu insignito del premio Nobel per la pace. Ma già a quel punto la società israeliana si era fortemente polarizzata. Archiviata oramai da molto tempo la lunga stagione dei padri fondatori e dei loro figli e “figliocci”, l’Israele di fine secolo si presentava come divisa tra un’ampia componente che auspicava la pace ma chiedeva anche garanzie e sicurezze alla controparte araba, ed una crescente minoranza non solo scettica ma oramai in posizione di netto rifiuto rispetto all’evoluzione degli accordi. Nel mezzo stava la lunga, inesauribile stagione di violenze terroristiche e di attentati. Rabin scontava l’isolamento che gli derivava dal doversi confrontare con chi lo accusava di essere un “traditore”, svendendo la terra e la sicurezza del Paese per quella che era denunciata come una mera illusione.
I toni, sempre più esacerbati, giunsero ben presto all’isteria. La sera del 4 novembre 1995 il primo ministro partecipò ad una manifestazione collettiva di piazza in prossimità del municipio di Tel Aviv. L’obiettivo era quello di esprimere il sostegno al rilancio degli accordi di Oslo e all’azione del governo. A conclusione della kermesse, Yigal Amir, un’estremista di destra, animato da un profondo fanatismo, inseritosi senza troppe difficoltà attraverso il cordone di sicurezza che avrebbe dovuto proteggere Rabin, gli sparò contro tre colpi di rivoltella, colpendolo in maniera decisiva alla schiena due volte e perforandogli un polmone.

La morte del premier provocò uno shock collettivo in tutta Israele. Le tonalità al calor bianco assunte dal confronto ideologico in Israele, dove gli stessi Rabin e Peres erano stati raffigurati dalle componenti più radicali dello spettro politico al pari di due nazisti, rivelavano il grado di drammatizzazione che aleggiava un po’ ovunque. I funerali, tenutisi il 6 novembre, in un clima di cordoglio collettivo, videro una partecipazione corale che, tuttavia, non si tradusse successivamente in un capitale politico spendibile. La mancanza di una leadership solida (a Rabin era succeduto Peres, che perse tuttavie le elezioni politiche tenutesi nel maggio del 1996), la fragilità delle opzioni politiche, le continue tensioni e il ripetersi dell’ondata di attentati, contribuirono al declino di quel «campo della pace» di cui Yitzhak Rabin rimane, forse a prescindere dalla sua stessa volontà, l’esponente più pragmatico, politicamente autorevole proprio per la sua biografia completamente “Israeli Inside”. Ma questa è già un’altra storia, a ben vedere.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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