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Blitzkrieg e accerchiamenti. 80 anni del film “To Be or not To Be” di Ernst Lubitsch

Battute, storie e genialità del film shakesperiano che da Hollywood invitava a ridere dei nazisti. Era il 1942

Agosto 1939. Adolf Hitler passeggia per le strade di Varsavia. I passanti strabuzzano gli occhi, i negozianti tirano giù le saracinesche. Hitler si ferma davanti alla vetrina di delikatessen del signor Masłowski, il cui sguardo oscilla tra l’attonito e l’atterrito. La folla è immobile, come fissata in un’istantanea, non vola una mosca. Poi una bambina corre dal Führer: “Posso avere il suo autografo, mr. Bronski?”.

Nel 1942 la Germania nazista occupa l’Europa continentale dai Pirenei al Volga, con l’eccezione di poche isole di libertà. In questo stesso anno, a seguito della conferenza di Wannsee che si è svolta a gennaio, lo sterminio degli ebrei europei viene organizzato con un arcipelago di nuovi campi in cui vengono assassinate almeno metà delle vittime complessive della Shoah, in grande maggioranza polacche. E ancora nel 1942, mentre dal ghetto di Varsavia i treni partono quasi ogni giorno pieni con destinazione Treblinka e tornano vuoti, in California un regista ebreo tedesco gira il suo film più memorabile, To Be or not To Be (che uscirà in Italia con il discutibile titolo Vogliamo vivere!).

Ernst Lubitsch era nato a Berlino nel 1892 in una famiglia modesta; il padre Simon era un sarto proveniente dalla Bielorussia. Dopo aver provato la carriera di commerciante di tessuti, Lubitsch si avvicina al teatro, studiando con Max Reinhardt. Qualche anno più tardi comincia a recitare e dirigere a teatro e soprattutto nel cinema, dedicandosi a film slapstick, parodie e commedie. Nel 1922 parte per Hollywood. Come altri protagonisti della settima arte mitteleuropei – solo tra i registi si possono citare Sternberg, Stroheim, Murnau, Sjöstrom – sceglie come patria elettiva gli Stati Uniti negli anni venti, anticipando la grande ondata degli anni trenta di ebrei e antifascisti in fuga dal nazismo.

Ma torniamo al film. A poche settimane dall’invasione della Polonia la compagnia di Joseph e Maria Tura prepara lo spettacolo Gestapo, in cui viene messo in ridicolo il regime hitleriano e il suo terrore poliziesco. Bronski, a cui di solito toccano parti secondarie come quella del becchino in Amleto, per la sua somiglianza con il capo del Reich veste i panni di Hitler, e a chi ritiene che sia poco credibile risponde passeggiando per le strade di Varsavia e seminando il panico tra la cittadinanza. Ma a poche ore dalla prima della satira antinazista tutto viene bloccato: il governo polacco non vuole fare saltare la mosca al naso all’irritabile vicino tedesco, come noto già di suo poco propenso a uno spirito di fratellanza. Perciò i nostri devono ripiegare ancora una volta sul pezzo forte del gruppo, Amleto appunto, particolarmente caro al vanesio Joseph Tura che impersona il principe di Danimarca. Va da sé che a Bronski tocca tornare a scavare fosse evocando il buon vecchio Yorick, buffone del re. E qui avviene la catastrofe. Perché nel bel mezzo del più celebre monologo del teatro occidentale – to be or not to be – il “grande, grande attore Joseph Tura” viene lasciato di sasso da un soldatino impomatato che se la svigna facendo alzare mezza platea con gran fracasso. La storia, o meglio la catastrofe, si ripete la sera successiva. Come si può immaginare, è un colpo non da ridere per l’autostima del grande attore, per non dire nulla del fatto che il soldato impertinente si alza per andare nel camerino della consorte dell’ignaro Joseph. Poi i tedeschi invadono la Polonia. Ormai obsoleta qualsiasi censura, la commedia adesso può cominciare davvero. Sul palco ecco dunque la resistenza all’invasore. E la posta in palio la pelle. To be or not to be. That is the question.

Ridere dei prevaricatori, dei criminali e degli assassini è da sempre uno degli strumenti più perfetti per mostrare i limiti delle loro azioni. Lubitsch invita a ridere dei nazisti, ritratti come controfigure di se stessi, della loro stupidità e della loro arroganza. Abbiamo perciò l’ottuso e crudele colonnello Erhardt che per conquistare Maria Tura le promette una razione extra di burro e tre uova alla settimana e che decide di farla finita quando scopre di essersi compromesso con l’amante del Führer (Hitler-Bronski, naturalmente). Non ce n’è solo per i nazisti, perché nel film nel 1939 Ninotchka, promosso con lo slogan Garbo laughs, “Garbo ride”, il regista aveva messo alla berlina tre seriosi sovieticoni, tipi un po’ alla Breznev in anticipo di qualche decennio che vanno in tilt all’apparire dell’affascinante protagonista (Greta Garbo). Non meno importante, Lubitsch ride del buoncostume e della censura americana negli anni di applicazione del codice Hays, estremamente restrittivo in termini di moralità, o presunta moralità. È quello che è stato definito Lubitsch touch, “tocco di Lubitsch”: sottigliezza, stile raffinato senza alcuna pedanteria e pesantezza, il tutto condito da non infrequenti allusioni sessuali. “Posso brindare al mio blitzkrieg”, fa il professor Siletzky a Maria corteggiandola da bravo traditore collaborazionista. “Preferisco un lento accerchiamento”, la risposta prudente di lei. Il regista berlinese non suscita il riso facendo cascare secchi di vernice in testa ai cattivi, come in Stanlio e Ollio, oppure con il nonsense dei fratelli Marx, l’atletismo di Buster Keaton o l’impasto di lacrime e sorrisi di Chaplin. I suoi film sfiorano il genere della sophisticated comedy, in voga negli Stati Uniti del tempo, non ignorano la commedia romantica e neanche quella black. Sono un impasto di tutto questo e di altro ancora, a partire dai rimandi all’attualità e dalla satira. E, come nel dialogo tra Siletzky e Maria, giocano continuamente sulla sottile distinzione tra detto e non detto.

Se per Calderón de la Barca la vita è sogno per Lubitsch è invece teatro. “Nel teatro è importante scegliere la parte giusta”, dice Siletzky a Maria. “Ma nella vita è ancora più importante”, ribatte lei con una frase che riassume tutto il film. “E qual è la parte giusta?”, fa il traditore. Quando Siletzky cerca di convincerla a diventare una spia dei tedeschi dice però una grande verità: “Siamo come le altre persone. Ci piace cantare, ballare… siamo umani”. Ma proprio qui sta il punto, perché non ci sono supereroi e malvagi per nascita, ma persone tutto sommato con tante cose in comune che però, nelle situazioni in cui si deve prendere posizione, fanno scelte completamente diverse come collaborare con il regime nazista o partecipare alla lotta contro gli assassini. Maria gioca con Siletzky come il gatto con il topo e ha buon gioco a spedirlo in un falso comando della Gestapo che altro non è se non il vecchio teatro ormai chiuso dai tedeschi in cui si nascondono gli attori passati alla resistenza. Qui avviene il confronto tra Siletzky e Joseph Tura nei panni di un ufficiale tedesco, con il “grande attore polacco” che però questa volta esagera – vuoi per vanità, vuoi per gelosia – e si fa smascherare. La vicenda prosegue con una serie esilarante di maschere in cui realtà e finzione si mescolano, si alternano, si sovrappongono, si sostituiscono. Il teatro mette in scena se stesso facendosi metateatro.

Bronski non è in realtà l’ultimo attore della compagnia. Ha un compagno allampanato e nasuto che scava fosse insieme a lui mentre Joseph Tura-Amleto monologheggia e che non ha neanche la ventura di assomigliare a Hitler o a un altro gerarca nazista. Si chiama Greenberg e coltiva il sogno di recitare un grande personaggio di Shakespeare; non Amleto ma il mercante di Venezia Shylock, l’ebreo. Che Shylock sia ebreo nel film non viene esplicitato (d’altronde, come dicevamo, Lubitsch gioca continuamente sul discrimine tra detto e non detto), ma chi non lo sa? D’altra parte non si dice neanche che lo sia Greenberg, eppure il nome parla chiaro. Siamo ancora in anni in cui Hollywood, creata in grande misura da ebrei e in cui ebrei sono tanti registi, produttori e anche attori, cerca di celare l’ebraismo in nome dell’universalismo. Non a caso il film più importante sull’antisemitismo che esce in questo periodo dalla fabbrica dei sogni è Il grande dittatore di Charlie Chaplin, che ebreo non è e crea un’opera diversa ma anche gemella rispetto a quella di Lubitsch con due anni di anticipo sul collega berlinese. Però a Greenberg, che è l’ultimo anche nella compagnia teatrale, nel momento decisivo toccherà un ruolo fondamentale. E ancora una volta realtà e finzione si intrecceranno: “Se ci pungete non versiamo forse sangue? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate torto non cercheremo di rifarci con la vendetta? Se siamo uguali a voi in tutto il resto, dovremo rassomigliarvi anche in questo”. Le sue parole sono le parole del teatro di Shakespeare.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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