Cultura
David Banon e Deborah Derhy: filosofia ebraica in forma di architettura

A partire da un saggio dei due studiosi, un’analisi dell’architettura del sacro, tra Torah, interpretazione e sostenibilità

Il testo di David Banon e di Déborah Derhy, Lo spirito dell’architettura, racchiude un prezioso insegnamento: a partire dalla Torah, prendere spunto da un racconto e individuarne il senso. O meglio interrogare il testo alla ricerca dello spirito, dell’afflato etico. Con la necessaria premessa che la Parola è Parola di vita, Parola viva, indirizzata a ciascuno di noi e al contempo con un valore universale. La Parola di Dio non è tesa a fissare un dogma, ma volta a indicare all’uomo un cammino di liberazione e ricerca della verità. Date queste premesse, ciò che è prezioso è proprio il fatto di rivolgersi a chiunque, al di là delle appartenenze religiose. E proprio per questo si afferma il valore dell’esegesi. La Parola richiede continue interpretazioni, è parola dinamica, non statica. La Parola è spirito. I due testi presi in esame dagli Autori sono Il racconto di Babele e quello della costruzione del Mishkan: l’uno si riferisce alla generazione scampata al diluvio (Genesi), l’altro al racconto in Esodo del peregrinare nel deserto di quello che diventerà il popolo ebraico. Entrambi hanno a che fare col costruire, quindi con l’architettura. L’uno associa l’architettura alla ricerca di una identità e di un luogo stabile su cui fissare la dimora (città, case, templi e così via), l’altro la lega alla Parola rivelata, la Torah, da conservare e proteggere durante il cammino nel deserto. All’instabilità peculiare del peregrinare si unisce lo straordinario potere aggregativo della Parola che interroga e al contempo orienta. La sapienza del pensiero ebraico-rabbinico permette ai due studiosi un continuo confronto fra le due realtà da cui scaturiscono molteplici linee di pensiero. Tutta la riflessione su questi episodi si invera non in un’analisi filologica statica, ma in un faccia a faccia col pensiero antico e contemporaneo, da Platone a Derrida, passando da Heidegger e Levinas. E ancora, episodi messi a confronto si configurano come racconti, storie; e come succede nella letteratura, nell’arte tutta, nascondono verità universali e si offrono all’analisi critica e sapienziale. La ‘lettura infinita’, per parafrasare un noto testo di David Banon, mette in risalto una caratteristica del pensiero ebraico dove prevale una linea dinamica che segna un percorso destinato a non avere di per sé termine perché legato alla mutevolezza della vita. Il testo di base si accresce rimanendo sempre lo stesso ma rinnovandosi, come appunto la vita che segna il tempo dell’uomo muta pur restandone fissa l’essenza. La stessa cosa si potrebbe dire per l’opera d’arte che non è mai ferma nel suo presente ma ogni volta cresce, nel suo significato, con le interpretazioni successive e si offre sempre con la sua singolarità ed unicità (H.G. Gadamer, Verità e metodo, 1960).

Dalla contrapposizione tra i due episodi del racconto biblico derivano fondamentali indicazioni sull’architettura. In quanto fatto eminentemente umano, l’architettura rivela nel suo tessuto connettivo la vocazione dell’uomo alla costruzione nello spazio e nel tempo. All’attenzione ai materiali offerti dalla natura in una diversità di beni che servono per la costruzione e per la vita. Gli
Autori parlano di spirito dell’architettura: in quanto riguarda l’uomo, essa è frutto dello spirito, cioè del suo soffio vitale; è legata allo spirito creativo, al principio generativo. L’architettura è viva quando manifesta lo spirito di servizio all’uomo, chiede la collaborazione della comunità, apre al dialogo, serve la verità. Sorpresa, è la parola che sorge spontanea guardando, alla lettura, come i punti dei racconti sulle due costruzioni siano contrapposti per tutta la lunghezza dell’opera all’interno dei vari capitoli di analisi critica, illuminando la scena dell’oggi e nello specifico il dibattito odierno dell’architettura, sull’abitare, sullo spazio e sul tempo. Il tempo come dimensione costitutiva del costruire: scandisce la realizzazione dell’architettura, segue la progressività dello sperimentare lo spazio dentro e fuori l’edificio. Architettura e memoria: in ciò che l’opera resta oltre il suo costruttore, permettendo all’uomo di lasciare un segno, l’architettura si mostra così intessuta di storicità, realizzandosi nel tempo e offrendosi all’interpretazione come la Parola.

Nel procedere con la lettura ho avvertito, da architetto, assonanze col moderno. A partire da un personaggio straordinario dell’architettura del Novecento, Giovanni Michelucci. Assonanze fra la sua idea di architettura e le considerazioni esegetiche di Banon. Da una parte una concezione dell’architettura che nasce dalla singolarità della figura del progettista, dall’altra un’idea di architettura che deriva dall’insegnamento della Torah all’interno del rapporto fra Dio e il popolo d’Israele. Nella chiesa dell’Autostrada del Sole (1964), nei pressi di Prato e Firenze, Michelucci racchiude in un perimetro di protezione un percorso che vuole essere di meditazione, uno spazio interno a misura d’uomo che si contrappone allo spazio esterno della strada concepita per la velocità dell’automobile. Qui cambia anche la percezione dello spazio esterno e del paesaggio: dall’auto è visto fuggevolmente, dalla chiesa è guadagnato nella sua reale dimensione. La copertura è realizzata come una vela, una tenda, come scrive Michelucci, metafora di quella della Alleanza, come protezione e riparo del popolo in cammino. I pilastri sono in cemento armato, disegnati come alberi ramificati, strutture portanti prese nella loro matrice formale dalla natura. Michelucci immagina con disegni significativi un futuro in cui la chiesa non sarà più quello che è ora, ma ciò che gli abitanti vorranno riconoscervi, secondo le loro esigenze. Straordinaria l’assonanza tra questa disponibilità dell’edificio a mutare con la caratteristica del Mishkan a essere facilmente montato e smontato. Costruito e decostruito.

E ancora, l’architetto svizzero Bonnie Roche si ispira espressamente al Mishkan per la realizzazione di uno spazio sacro nella città moderna. Infine a ulteriore motivo di riflessione possiamo ricordare come nel Palazzo di Vetro dell’Onu sia stato realizzato negli Anni Sessanta del Novecento uno spazio sacro di meditazione, non confessionale, espressamente voluto dall’ex segretario generale dell’Onu, Dag Hammarskjöld, deceduto nel 1961 in un incidente aereo, insignito postumo del Premio Nobel per la Pace e che, con parole oggi di nuova attualità, così venne ricordato dal New York Times: «Se l’umanità sopravvive alla minaccia di un olocausto nucleare per evitare il quale quest’uomo si è battuto così valorosamente, la storia annovererà certamente la sua carriera come una delle grandi forze per un mondo migliore».

Tornando al racconto, il Mishkan nel suo piccolo realizza tutte le condizioni dell’architettura: dal perimetro come recinto, alla copertura, all’articolazione degli spazi interni. Alla doppia funzione di accogliere la Torah e la comunità che intorno ad essa si riunisce. Luogo di incontro e dialogo con Dio, anzi accoglimento di Dio tra gli uomini. Il Mishkan è struttura mobile trasportabile in diversi luoghi, quindi fatta per l’incontro con il diverso, come sottolinea David Banon. Dove c’è comunità c’è sacro. Pertinente è a proposito il riferimento a Pesach la cui celebrazione avviene nell’intimità della casa, raccolta attorno alla parola. Per concludere, il rapporto, nello spazio di questa riflessione, tra la chiesa-tenda e il Mishkan si verifica non già nella dimensione o nelle forme delle opere (l’una essendo radicata, l’altra transitoria), ma guardando al pensiero, allo spirito, sotteso a questa concezione architettonica. Il paradigma dell’architettura Torre di Babele, invece, fin dalle intenzioni di progetto, rivela la sua caducità. Se anch’essa era pensata come spazio di realizzazione del sacro nel collegare terra e cielo, manifesta, proprio per ciò, una concezione del sacro come conquista, attraverso un percorso verticale alla cui sommità sta il simulacro del divino. Lo spazio sacro diventa allora, paradossalmente, inaccessibile in quanto tale, così come lo spazio urbano sottinteso, concepito solo per i propri simili, esprime un’idea dell’abitare che esclude il diverso da sé rendendo perciò impossibile ogni comunicazione.

Infine, uscendo dalla logica di contrapposizione, sovente propria della filosofia e della teologia occidentale, tra materia e spirito, gli Autori indicano nella sacralizzazione della materia un modo per aprire a una concezione più feconda. Natura, terra, cielo sono visti come offerta all’uomo della totalità del creato. Come tradurre oggi il valore di questa interpretazione e insegnamento? Per esempio, il rispetto del creato fa appello al senso di responsabilità dell’uomo che ha il compito di studiare la materia, osservarla, analizzarla. Non dominandola, ma apprezzandone l’essenza. La sostenibilità ambientale dell’architettura pone al centro un rapporto tra costruito e territorio senza che l’uno e l’altra siano rispettivamente prevaricanti. È un appello all’intelligenza dell’uomo che lo interroga sulla complessità della natura.

David Banon e Déborah Derhy, Lo spirito dell’architettura. Dialogo o babele?, Traduzione di Laura Marino, edizioni Qiqajon, pp. 159, 15 euro


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