Hebraica Nizozot/Scintille
Ebraismo e islàm: la guerra della memoria sul Monte del Tempio

In un libro, le cause profonde del conflitto simbolico-religioso della storia recente di Gerusalemme e – forse – gli argomenti che potrebbero favorire soluzioni giuste per quello stesso conflitto

L’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite per la cultura con sede a Parigi, in forza della sua maggioranza composta da paesi arabo-musulmani, per anni si è pronunciata con faziosità circa il Monte del Tempio (Har ha-Bait in ebraico; al-Haram al-Sharif in arabo) di Gerusalemme e altri luoghi santi nello stato di Israele, come se fossero momoria esclusiva dell’islàm e non avessero un’origine specificamente ebraica o almeno un carico di memoria condivisa da tutte e tre le fedi monoteiste. Data l’intensità di simboli religiosi associati al cuore storico-archeologico della città santa, le dichiarazioni unilaterali dell’Unesco su quei siti hanno innescato e periodicamente rinfocolano vere guerriglie diplomatiche, a dispetto della ‘verità’ documentata appunto dalla storia, dall’archeologia e dalle fonti letterarie (che sono anche fonti teologiche), le quali tutte attestano esplicitamente il profondo legame originario tra il popolo ebraico e il luogo più santo della sua fede.

Un coraggioso volume, ora tradotto e curato da Vittorio Robiati Bendaud, dal titolo Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia contesa, edito da Guerini e Associati (pp.206, euro 18,50), di cui sono autori gli studiosi israeliani Yitzhak Reiter e Dvir Dimant, affronta l’argomento ripercorrendo una vasta messe di fonti islamiche, dall’VIII secolo fino all’età contemporanea, allo scopo di mostrare come la negazione del legame tra ebrei e il luogo del Tempio sia un fatto recente, che non risale molto oltre la guerra dei sei giorni (1967), ovviamente per delegittimare l’attuale sovranità politica dello stato di Israele. Al contempo, gli autori riportano la grande quantità di testi in arabo che da secoli hanno riconosciuto l’intrinseca ebraicità di quei luoghi e la volontà dei primi califfi di inserirsi in quella narrativa, anziché negarla, perché senza un legame forte con la storia ebraica è impossibile comprendere la stessa fede islamica (come, del resto, anche la fede cristiana e le fonti neotestamentarie). A motivo della quantità di tali fonti islamiche, affermano i due autori, “le delibere [di fatto antiebraiche, oltre che anti-israeliane] non sarebbero mai state possibili se il materiale contenuto in questo volume fosse stato facilmente accessibile”. Inoltre, ribadiscono, “l’islàm è la continuazione della fede monoteista di Abramo e i personaggi della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento, la maggior parte dei quali è menzionata anche nel Corano e nei testi islamici tradizionali (come i Hadith che riportano detti e fatti del profeta Muhammad), costituiscono parte della storia islamica antica”. Negare quelle radici porta alla fine a delegittimare l’islàm stesso nel suo complesso.

Dette fonti islamiche, ad esempio, insistono sul valore simbolico del ‘viaggio notturno’ del profeta Muhammad dalla citta della Mecca a Gerusalemme, ovvero dalla moschea della Ka‘aba (ancora oggi il luogo più sacro per l’islàm) alla moschea di al-Aqsà, che si trova sulla spianata del Tempio, il cui nome significa non a caso ‘la lontana’. Secondo Uri Rubin, autore dello stimolante libro Between Jerusalem and Mecca (edito dalla Hebrew University nel 2019) – infatti, non esiste solo Gerusalemme e Atene! – tale ‘viaggio’ può essere interpretato come “il tentativo di sollecitare le speranze proprie del messianismo ebraico circa la restaurazione del culto divino sul monte del Tempio a seguito dell’occupazione persiana nel 614 d.C. I versetti coranici di questo periodo manifestano l’aspettativa che gli ebrei si uniscano a Muhammad con la speranza di realizzare così la loro tanto attesa salvezza”.

In un genere letterario fiorito in quell’antica letteratura arabo-musulmana, genere detto “lodi di Gerusalemme”, più specificamente in un testo del XIII secolo riportato da Amikam Elad, leggiamo: “Esulta, o Gerusalemme, perché Io manderò a te il Mio servo ‘Abd al-Malik [il califfo che ordinò la costruzione della Cupola della Roccia sulla spianata], che restaurerà la tua sovranità come in passato [all’epoca di Salomone]; Io ti adornerò con oro e argento, perle e gemme, ossia con la Roccia, e ti coronerò con la Mia corona come fu agli inizi. Io sono Allah, e non vi è dio all’infuori di Me. Io non ho eguali”.

Secondo Elad, le fonti islamiche sottintendono un desiderio di riparazione ai torti inflitti dai cristiani agli ebrei, dal momento che i cristiani o bizantini – in quanto eredi dei romani – erano considerati i distruttori del Tempio, che si trovava in macerie all’epoca della conquista islamica.

Spigolare nel volume di Reiter-Dimant significa imbattersi in decine e decine di queste citazioni e spiegazioni, che fanno intravedere fors’anche una certa solidarietà islamica con la causa ebraica proprio a riguardo della memoria del sito templare, e ciò a motivo della sua assoluta centralità nella storia del popolo ebraico. In età medievale poi, alcuni sapienti delle tre religioni monoteiste arrivarono a discutere persino circa la possibilità di erigere nuovamente il Tempio in quel sito. Come si è giunti allora, negli ultimi sessant’anni, alla negazione (in vero soprattutto da parte dei governi dei paesi arabi) di quella memoria e di quella storia? La manipolazione, anzi la censura delle suddette fonti è certamente frutto della volontà politica di sradicare la dimensione ebraica di quei luoghi al fine di avallare l’idea che si tratta di ‘luoghi santi’ esclusivamente islamici. Ovviamente, come involontario effetto collaterale, quella censura colpisce anche il legame non meno storico tra quei luoghi, Gerusalemme tra gli altri, e il cristianesimo, almeno quello delle origini. Tale visione censoria avanza un’accusa contro gli archeologi israeliani che lavorano nell’area: quella di non avere intenti scientifici ma di voler il collasso sia della moschea di al-Aqsà sia della Cupola della Roccia… confondendo tra loro i più serii studiosi, che collaborano con le migliori università internazionali, e poche frange di fondamentalisti che vogliono costruire il terzo Tempio a dispetto degli ostacoli halakhici (che pure il rabbinato centrale di Israele non smette di ricordare).

Con molta onestà, il volume – che ha una postfazione congiunta del curatore Bendaud e della studiosa armena Antonia Arslan – dice di volersi concentrare “sulla connessione degli ebrei con il Monte del Tempio così come presentata nelle fonti islamiche, che è differente dalla tematica dei diritti. Persino le fonti che riconoscono un legame ebraico con quell’area non è detto che necessariamente accettino che, perciò, esista un diritto degli ebrei di fare uso di quel sito [oggi in mano all’autorità islamica, secondo la legge dello status quo sui luoghi santi] o di potervi accedere. Le fonti riportate tendono a distinguere tra legami e diritti, ed esistono pure fonti che minimizzano questa distinzione”.

In sintesi, tra le pagine di questo importante libro si trovano sia le cause profonde del conflitto simbolico-religioso della storia recente di Gerusalemme, sia – forse – i motivi ovvero gli argomenti che potrebbero favorire soluzioni giuste per quello stesso conflitto. Una storia dolorosa e affascinante ad un tempo, o se si preferisce citare un grande scrittore scomparso pochi anni fa, davvero “una storia d’amore e di tenebra”.

Yitzhak Reiter e Dvir Dimant,  Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia contesa, a cura di Antonia Arslan e Vittorio Robiati Bendaud, Guerini e Associati (pp.206, euro 18,50)

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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