Cultura
Giorgio Bassani e suoi rapporti con Carlo e Primo Levi

Un convegno a Torino per parlare dello scrittore ferrarese e la città piemontese, i suoi ambienti culturali e le idee. Con due proposte interessanti a proposito dei rapporti tra Bassani e i Levi

Due giornate di studi su Giorgio Bassani all’Università di Torino, il 30 e 31 maggio scorso, per esplorare i rapporti talvolta esili talvolta saldissimi tra lo scrittore ferrarese e il capoluogo del Piemonte con i suoi ambienti, i suoi autori, le sue idee. La casa editrice Einaudi innanzitutto, che pubblica molte delle opere di Bassani, e l’impegno editoriale dello scrittore stesso. Poi gli autori: Carlo e Primo Levi, Pavese, Fenoglio, Natalia Ginzburg, Soldati. Ma anche molto altro, dall’eredità di Lombroso all’antifascismo, dal paesaggio urbano alla partecipazione azionista nei mesi del governo Parri nell’immediato dopoguerra fino al dibattito sulla poesia condito dalle polemiche delle avanguardie e al cinema. Tra le relazioni più significative merita rendere conto in particolare di quelle di Luca Beltrami e Alberto Cavaglion sui rapporti tra Bassani e i due Levi, Carlo e Primo.

Bassani e Carlo Levi
La comune militanza antifascista, l’impegno azionista nella fase breve ma decisiva della Resistenza e dell’immediato dopoguerra, la scelta di Roma mantenendo però saldo il legame con le città di origine accomunano Bassani e Carlo Levi, per un segmento non piccolo di Novecento certamente il Levi maggiore per fama. Allo stesso tempo sensibilità diverse alla base di percorsi che si incrociano più volte ma procedono anche in direzioni distinte. I primi incontri tra Levi e Bassani hanno come cornice Firenze dopo l’8 settembre all’insegna della clandestinità e del comune impegno antifascista. Un luogo e un periodo in cui – tra dicembre 1943 e luglio 1944 – Levi braccato dai nazifascisti scrive Cristo si è fermato a Eboli. Sono mesi per entrambi segnati anche dall’intreccio di discussioni politiche e culturali. A guerra finita i due si ritrovano a Roma nel contesto del governo guidato da Ferruccio Parri, tentativo per molti troppo breve di tradurre in proposta politica l’esperienza del partigianato il cui esaurirsi Levi restituirà nell’Orologio, forse il più importante romanzo politico del Novecento italiano. Con lo scioglimento del Partito d’Azione, quel PdA definito un gruppo di magnifici generali senza esercito, i percorsi politici di Levi e Bassani proseguiranno per un certo tempo in direzioni divergenti. I due torneranno a incrociarsi in diverse occasioni sul terreno delle lettere. Per esempio nel 1950, quando Bassani sulla rivista “Paragone”, appena fondata da Roberto Longhi e Anna Banti, pubblica un saggio dal titolo “Levi e la crisi” in cui prende in esame le tre opere di Levi Paura della libertà, il Cristo e L’orologio. Per Bassani Levi anche raffigurando la Lucania con i suoi contadini, le sue leggende, la malaria e i soprusi descrive in fondo sé stesso. L’affresco della civiltà rurale sarebbe così nient’altro che una “affabulazione meravigliosa ma poco realistica”, un autoritratto dell’esuberante pittore e scrittore e medico e antifascista e antropologo e meridionalista.
Negli stessi anni una parte della critica impegnata, specie quella fortemente orientata dall’ideologia comunista (un nome su tutti: Mario Alicata), non risparmia stroncature nei confronti di Levi, prendendo di mira in particolare il Cristo, la sua opera fondamentale. Per i critici comunisti Levi stempera l’analisi ideologica con il poetico. In altre parole, Levi comprendendo nel libro atteggiamenti, tradizioni e leggende di un mondo rurale non toccato dalla modernità avrebbe diluito la critica al fascismo e più in generale a uno stato unitario lontano e tutto sommato indifferente ai problemi di contadini miseri e analfabeti ostaggio di un notabilato locale corrotto interessato unicamente a non rinunciare al proprio privilegio. Come spesso capita alla critica ideologica – non solo quella comunista ovviamente – è questa e non le pagine di Levi a essere oggi invecchiata. La critica di Levi al regime fascista e a istituzioni statali sideralmente lontane avvertite come un destino necessario e rapace è invece formidabile nel Cristo e altrove proprio perché in grado di unire particolare e generale, insomma di fare letteratura di impegno e tuttavia pur sempre letteratura.
La critica di Bassani è diversa da quella ideologicamente orientata. Per lo scrittore ferrarese il limite del Cristo è non essere né opera di fantasia né saggio sociologico, insomma una via di mezzo, un ibrido o una chimera. Bassani coglie indubbiamente nel segno, e non è il solo; per la prima pubblicazione lo stesso editore Einaudi sceglie una collana di saggistica che però ospiterà anche altri libri di confine come il Diario di Anne Frank e Se questo è un uomo. Resta da valutare se si tratti di un difetto oppure, come ritiene chi scrive, di una forza. Rimane il fatto che il Cristo è percorso da uno slancio di liberazione – non si dimentichi che viene scritto durante la Resistenza – dall’idolatria dello stato con i suoi riti meschini e la sua burocrazia che giunge al culmine con il fascismo. A questi riti insulsi e prevaricatori si contrappone un altro mondo, il mondo della vita, quello dei contadini dei borghi malarici della Lucania. Nell’Orologio vediamo ancora lo stesso slancio, uno slancio che però si consuma, infiacchito dal ritorno all’ordine dopo il 25 aprile e il 2 giugno, dalla ferrea logica della nascente guerra fredda che inibisce di fatto il cambiamento, dall’esaurirsi del governo Parri e del PdA, dall’amnistia Togliatti, dai conti da fare con la realtà dopo i sogni di riscatto, dall’inghiottimento delle migliori energie dell’Italia libera nelle sabbie mobili del nemico sempre e ancora uguale dello stato-idolo. In questo contesto anche l’amicizia tra Bassani e Levi si trasforma in qualcosa d’altro, più simile alla frequentazione occasionale che all’unità di sentire e di intenti.
Due momenti di questo rapporto vanno tuttavia ancora menzionati. Nel 1962 Levi scrive un articolo intitolato “Calcio e letterati” in cui racconta di una telefonata a Bassani il quale però avrebbe tagliato corto per non perdersi alla televisione un Real Madrid-Juventus, terminata per la cronaca 0-1. L’altro episodio evocativo è il ritratto che Levi fa di Bassani. Un dipinto magnifico in cui lo scrittore del Giardino dei Finzi-Contini, i grandi occhi cerulei spalancati, guarda dritto negli occhi l’osservatore. Per Paola Bassani, figlia dello scrittore, è il ritratto di un saggio stoico.

Bassani e Primo Levi
Diversamente da quello con Carlo Levi, il rapporto di Bassani con Primo è nella migliore delle ipotesi episodico, nella peggiore fortuito, comunque occasionale. Fino alla morte nel 1975, d’altra parte, è Carlo e non Primo il Levi celebre in Italia. Due terzi delle non molte lettere che da Bassani arrivano a Primo Levi sono recapitate per errore e vanno reindirizzate a Carlo. Per questo Cavaglion nel tracciare un profilo della relazione tra Bassani e Primo Levi parla addirittura di gioco d’azzardo. Un punto di contatto è rappresentato dall’editore Einaudi, che dalla leggendaria sede in via Biancamano a Torino detta l’agenda di molto del meglio della letteratura italiana del Novecento. Risale al 1961 – tre anni dopo l’edizione einaudiana di Se questo è un uomo e due prima della Tregua, un anno prima del Giardino dei Finzi-Contini – l’unico incontro pubblico tra i due. La cornice è un’occasione sull’antifascismo a Bologna in cui Levi restituisce una sintesi di quanto narrato nel suo primo e fino allora unico libro, Bassani racconta dell’assalto fascista alle sinagoghe di Ferrara il 21 settembre 1941, molto prima dell’8 settembre (le porte abbattute, i vetri infranti, gli arredi sfondati, i rotoli della Torà distrutti e il rabbino schiaffeggiato: una buona risposta a chi riconduce l’antisemitismo violento in Italia esclusivamente all’anno e mezzo di occupazione tedesca). L’intervento di Bassani è interrotto da un contestatore che gli rimprovera i suoi articoli allineati con il regime prima delle leggi antisemite del ’38. Oltre a questo incontro e a quello virtuale attraverso la mediazione di Einaudi, il rapporto tra i due scrittori è un filo sottile, quasi invisibile. L’ipotesi di ricerca che Cavaglion suggerisce si rivolge alla visione del paesaggio. Sia in Bassani sia in Levi le descrizioni paesaggistiche sono importanti e soprattutto si intrecciano a condizione e stato d’animo dei personaggi. Basti pensare al giardino della villa dei Finzi-Contini come a un eden immobile e inafferrabile, un giardino dove non c’è vita, come se la stessa vegetazione fosse pietrificata; oppure alla Buna abbandonata dai tedeschi nel gennaio 1945 disseminata di cadaveri congelati che richiama la Milano manzoniana colpita dalla peste. Nel racconto “Lida Mantovani” delle Storie ferraresi Bassani cita il freddissimo inverno del 1929 in cui si va a pattinare sul Po ghiacciato. Allo stesso grande freddo di quell’anno polare Levi fa riferimento nel racconto di apertura del Sistema periodico, “Argon”, in cui nella schiera dei tanti antenati ebrei piemontesi nobili e inerti vediamo Magnavigàia, cioè zia Abigaille, “che da sposa era entrata in Saluzzo a cavallo d’una mula bianca, risalendo da Carmagnola il Po gelato”. Non si tratta naturalmente di influenze ma di convergenze fortuite che tuttalpiù denotano una comune sensibilità. Nel racconto “Nel parco” di Vizio di forma Levi cita il giardino dei Finzi-Contini: non il libro ma il luogo descritto nel libro, che viene ad affiancarsi ad altri celebri luoghi letterari come “la casa dei Buddenbrook e quella degli Usher, la capanna dello zio Tom e il Castello di Verona col falco, il cervo e il cavallo nero” (quest’ultimo un luogo carducciano oggi semidimenticato). Nel profluvio di personaggi di carta che affollano “Nel parco” Levi mette anche una propria creatura, Mordo Nahum, “il greco” della Tregua. È possibile attraverso il riferimento al paesaggio delineare un percorso che comprenda gli scrittori italiani ebrei del Novecento? Rimane alla lettera un terreno da esplorare. Cavaglion suggerisce un prima e un dopo separati dal trauma del 1938 con il suo seguito di esclusione, guerra, persecuzione e deportazione. Prima, a conseguenza dell’uscita dai ghetti e dell’emancipazione, il paesaggio è giardino meraviglioso, florida terra promessa piena di speranze. Dopo le leggi razziste e la Shoah è paesaggio di morte: quello del giardino-cimitero di Bassani, per esempio, o degli antenati fantasmatici di “Argon”.

A proposito di paesaggi, non possiamo non menzionare la mostra Case di vita. Sinagoghe e cimiteri in Italia a cura di Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto, aperta al Meis di Ferrara fino al 17 settembre 2023. Le case di vita, batè chayim, sono in ebraico i cimiteri. E i cimiteri sono una presenza costante nel libro più complesso e importante di Bassani, il celebre Giardino. Il romanzo si apre con una visita alla necropoli etrusca di Cerveteri, che permette alla fantasia del narratore di andare ad altri morti, cronologicamente più recenti ma ugualmente appartenenti a un mondo che non è più. Nel libro viene citato anche l’antico cimitero ebraico di Venezia, su cui lavora il professor Ermanno, padre di Alberto e Micòl. E poi il cimitero di Ferrara, dove è oggi sepolto lo stesso Bassani, di cui il giardino della villa è inquietante doppio. Il cimitero, per Bassani, è forse stato casa di vita in altre epoche: le remote epoche precedenti il ’38, ere preistoriche in cui, come nella Macondo delle origini inventata dal narratore colombiano García Márquez, “nessuno era ancora morto”. Dopo, la casa di vita è soprattutto casa di morte.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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