Cultura
I due soli di Osip Mandel’štam

Ritratto di un poeta clssico e rivoluzionario

“Raramente come con la sua poesia ho avuto l’impressione di camminare – di camminare al fianco dell’Irrefutabile e del Vero, e grazie a lui”. A scrivere è il poeta tedesco Paul Celan nel 1960; la poesia a cui fa riferimento è quella di Osip Mandel’štam, scomparso ventidue anni prima in uno dei tanti Lager dell’arcipelago del terrore staliniano. Di Mandel’štam, oggi riconosciuto anche grazie a Celan come uno dei protagonisti della poesia del Novecento, è difficile individuare una cifra unica senza rischiare di ridurre la multiformità della sua opera. Tuttavia, se questa cifra c’è, va indicata probabilmente nel rifiuto di appartenere a un gruppo costituito, qualunque esso sia, anche a costo di divenire un esiliato in patria – ed è proprio quello che accadrà. Ebreo di nascita, si converte in giovane età al maggioritario cristianesimo certo non per convinzione religiosa, anzi forse proprio nel tentativo di uscire da ogni chiesa. Ma la sua opera, come vedremo, è costellata fino alla fine di motivi ebraici spesso nascosti eppure centrali.

Vita e destino – Mandel’štam muore nel gelo della Kolyma a 47 anni. Prima conosce Varsavia, città natale, e soprattutto San Pietroburgo, città di elezione raffigurata in una poesia scritta nel 1916, a ridosso dell’anno delle rivoluzioni, come una “diafana Petropoli” su cui regna Proserpina, ambigua divinità figlia della dea della fertilità e della nascita ma anche congiunta al re dell’oltretomba Plutone. Mandel’štam a vent’anni ha inclinazioni rivoluzionarie, studia all’estero e viaggia – spesso in Italia. Non può iscriversi all’università in Russia perché è ebreo, e anche questo aspetto getta luce sulla decisione di farsi battezzare. In quello che è ancora l’impero dello zar dà vita con Anna Achmatova e altri a un movimento poetico postsimbolista noto come “acmeismo”, dal greco akmé, culmine, vertice. Allo scoppio della guerra mondiale, nonostante cerchi di essere arruolato viene esonerato per problemi cardiaci. Nell’anno della verità 1917 preferisce la rivoluzione “borghese” di febbraio a quella bolscevica di ottobre. Durante la guerra civile sposa Nadežda, a cui sarà legato da un amore incondizionato, geloso e totale. Di Nadežda, che vivrà ancora a lungo dopo la morte del poeta e contribuirà a delinearne il mito, da poche settimane è uscito in italiano in bella edizione il primo dei due volumi di memorie intitolato Speranza contro speranza (Settecolori). Nadežda racconta tra le altre cose che il marito perdeva il controllo quando lei si allontanava anche soltanto di qualche metro e le chiedeva consiglio e approvazione su ogni singolo verso. Nel corso degli anni venti, con la nascita dell’Unione Sovietica e poi la morte di Lenin, Mandel’štam viene progressivamente esiliato in patria: subisce censure e campagne denigratorie, le sue poesie vengono pubblicate con crescente difficoltà, si diradano le collaborazioni.

Gli anni tra il 1925 e il 1930 sono di silenzio pressoché totale. In questo e nel periodo successivo in cui riprende a scrivere risiede con Nadežda a San Pietroburgo, trascorrendo però soggiorni anche lunghi e decisivi altrove, per esempio a Mosca, a Tbilisi in Georgia, in Armenia (che fornisce l’occasione della prosa Viaggio in Armenia), a Yalta in Crimea. I numerosi spostamenti non devono ingannare sulle condizioni economiche della coppia, che vive in pochi metri quadri e in costante ristrettezza di mezzi. Mentre l’opera scritta tra il 1908 e il 1925, in buona parte pubblicata in una serie di raccolte, è varia e frastagliata, quella degli anni trenta è relativamente coesa – il tema del dolore è un centro di gravità frequente – e vedrà la luce per la maggior parte postuma nei decenni successivi alla morte dell’autore.

L’esilio, l’Italia – L’esilio come condizione esistenziale è tra i temi su cui Mandel’štam torna più spesso a riflettere, anche con suggestioni relative alla legge in esilio nella diaspora ebraica che lo accomunano al contemporaneo romanziere galiziano di lingua tedesca Josef Roth. Non meno importante il riferimento agli autori classici, da Omero ai poeti latini di età augustea e in particolare Ovidio. Con un omaggio a quest’ultimo, Mandel’štam sceglie Tristia come titolo della seconda raccolta pubblicata – e della poesia omonima che è tra le sue più belle in cui evoca l’ultima notte di Ovidio a Roma prima della partenza per la Scizia, terra di esilio. Come il poeta latino, “io so la scienza dei commiati, appresa / fra lamenti notturni a chiome sciolte”. Non solo Ovidio tuttavia: tutta la Roma augustea con il suo “civico imperio” e il suo “fasto che prima o poi decade” viene raffigurata in quanto “specchio della natura”, come tra gli altri noterà Josif Brodsky, un altro poeta russo ed ebreo innamorato dei versi di Ovidio, Virgilio, Tibullo, Orazio. L’esilio, unito alla passione per Roma e la latinità, conduce verso Dante, altro autore centrale a cui Mandel’štam dedica uno scritto (Conversazione su Dante). Ma tutto ciò che è italiano entusiasma il poeta di San Pietroburgo, dalla lingua “dolce-salata” alle sculture o forse gli affreschi di Michelangelo nella Capella Sistina chiamati a raccolta per descrivere i contorni delle nuvole a Voronež.

Giuseppe in Egitto – Il viaggio di Dante nell’oltretomba, su cui Mandel’štam riflette continuamente negli ultimi anni, trova un corrispondente ebraico in una poesia della fase acmeista precedente la prima guerra mondiale in cui viene evocata la storia biblica di Giuseppe, con il quale il poeta condivide il nome (Osip ne è la versione russa). Viviamo come in un Egitto, dice Mandel’štam, in cui “il pane è infetto e prosciugata l’aria. / Come stentano a guarire le ferite! / Maggior angoscia non dové provare / Giuseppe dato in vendita agli egizi!”. Secondo Remo Faccani è probabile un sotteso richiamo al caso Bejlis, di poco precedente, quando nella Kiev del 1911 un ebreo era stato accusato di aver ucciso un bambino cristiano per scopi rituali e processato; l’affaire aveva scatenato un’ondata di antisemitismo e molti anni più tardi fornirà lo spunto per L’uomo di Kiev di Bernard Malamud. La vendita come schiavo in Egitto e la reclusione in prigione di Giuseppe assurgono per Mandel’štam a simboli della condizione umana in generale ed ebraica in particolare, ma sono anche segno di un’attenzione per l’attualità e la politica da parte del poeta che non sempre i critici hanno riconosciuto.

Nel giardino dell’Eden – La natura e gli animali, intesi biblicamente alla maniera di Chagall, sono protagonisti di alcune tra le più belle liriche di Mandel’štam. “Un tonfo cauto e sordo – un frutto / dal ramo s’è staccato via – / tra l’incessante melodia / del bosco silenzioso, muto…” è una poesia scritta nel 1908 a diciassette anni che guarda probabilmente al modello degli haiku giapponesi per la concisione, l’affidamento all’udito, la sensibilità zen. Ma a leggere i quattro versi con attenzione emerge anche un modello biblico, quello del giardino dell’Eden con i suoi alberi della vita e della conoscenza e il frutto fatale che “dal ramo s’è staccato via”. Se sorvoliamo l’intera opera di Mandel’štam per rivolgerci a una delle ultime poesie, datata 30 aprile 1937, assistiamo all’adorazione della natura da parte del poeta che scrive questa volta in prima persona: “Io mi porto questo verde alle labbra […] Mi piego alle umili radici”. Romanticismo? Un rito pagano? Oppure una finzione ironica? Nel già citato Tristia, infine, vediamo un catalogo di animali, il bue e il gallo innanzitutto ma anche il cigno e lo scoiattolo. In un complesso intreccio simbolico contrassegnato da echi ovidiani e danteschi, ecco la visione chagalliana degli animali che, utilizzando un’espressione di Saba, “avvicinano a Dio”. “Mentre il bue rumina pigro nell’andito, / il gallo, araldo della vita nuova, / sulla cinta muraria le ali sbatte”, scrive Mandel’štam con verosimile allusione al Cristo (e al Socrate del Fedone) – simbolo di rinascita e rinnovarsi dell’esistenza umana. Ancora una volta non possiamo fare a meno di rimandare tematicamente alle crocifissioni di Chagall.

I due soli – Nel 1916, quando muore la madre, Mandel’štam scrive una poesia fondamentale. “Irreparabile è questa notte, / e da voi continua a esser chiaro in cielo. / Gerusalemme, alle tue porte / hai visto levarsi il sole nero”. Al sole nero, nei versi che seguono, viene contrapposto “il sole giallo”. Non è facile districarsi nel folto dei simboli, ma è plausibile pensare a una coppia di opposti in cui il sole nero rimanda alla tradizione grecolatina, alla modernità occidentale, a Cristo con i suoi corollari di rinascita e immortalità; il sole giallo all’eredità ebraica, alla madre, alla vita che segue il proprio ciclo naturale segnato dal dolore. A questo secondo polo appartengono “le voci dei figli d’Israele” che celebrano con semplicità spoglia un rito funebre così diverso dalle esequie in gran pompa dei funerali cristiani. Il sole giallo comprende il corso della vita racchiuso tra i due momenti di nascita (“ninna nanna: su, dormi!”, “dentro la culla gli occhi io riapro”) e morte (“le esequie di mia madre”, “il rito funebre”), momenti che non si negano l’un l’altro ma al contrario vanno intesi come parti di una sola unità. “Siamo vicini alla morte / più nell’infanzia che in età matura”, scrive Mandel’štam in un’altra poesia. I colori giallo e nero tornano in una lirica scritta venti anni più tardi ed è possibile che rimandino ancora alla medesima simbologia. “Questa giornata ha come il becco giallo – / non la posso capire”, comincia il poeta con un possibile richiamo all’immediatezza, a inesperienza e immaturità dell’infanzia, all’eredità ebraica. E conclude, qualche verso oltre, con il nero delle navi da guerra nei canali.

Destinazione Kolyma – Nel 1934 uno schiaffo dato a Aleksej Tolstoj, noto intellettuale di regime e fervente ammiratore di Stalin, provoca una perquisizione e la successiva scoperta di versi antisovietici. Mandel’štam è arrestato, processato e condannato a tre anni di confino da passare a Cerdyn nella inospitale regione degli Urali. Una serie di allucinazioni e il tentato suicidio convincono però quasi subito le autorità, che almeno in questa fase sono intenzionate a isolarlo tenendolo in vita, a mandarlo nella più mite Voronež, nella Russia meridionale. I versi più duri contro il regime e Stalin non vengono scoperti e saranno pubblicati soltanto molti anni dopo. In essi Mandel’štam denuncia il clima di sospetto e delazione che attanaglia l’Unione Sovietica: “Dovunque ci sia spazio per una conversazioncina / eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino”, cioè Stalin, originario della montuosa Georgia. Di lui vengono descritte le “tozze dita grasse come vermi”, gli “occhiacci da blatta” e “gli stivali che scoccano neri lampi” (ancora una volta il colore nero!). A circondare il feroce dittatore, “una marmaglia di gerarchi” i cui servigi “lo mandano in visibilio”: “chi zirla, chi miagola, chi fa il piagnucolone”, ma il capo supremo è il solo a rifilare spinte e comminare esecuzioni. Sono versi che offrono la risposta migliore a chi relega la poesia di Mandel’štam esclusivamente al regno dei simboli e all’evocazione delle domande esistenziali dell’uomo in ogni epoca. Ci sono anche queste cose naturalmente, allo stesso tempo però non manca l’interesse per ciò che accade nel presente, per un impegno nel mondo. Nel 1938, pochi mesi dopo il rilascio e mentre le epurazioni raggiungono il culmine, Mandel’štam viene nuovamente arrestato. Dopo il passaggio alla Lubianka è condannato alla deportazione per “attività controrivoluzionaria”. A ottobre, dopo un mese di viaggio, viene internato in un campo di transito nella regione di Vladivostok, ma la destinazione finale è più a nord, in uno dei campi ghiacciati della Kolyma. Muore a fine dicembre e viene gettato in una fossa comune. Dopo la fine dell’età di Stalin si diffonde in Russia la leggenda di un poeta che in condizioni estreme consolava gli altri detenuti recitando le sue traduzioni di Dante e Petrarca.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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