Cultura
Il fantasma di Hitler – terza parte

Storia di una incommensurabile carneficina

È nelle dinamiche del collaborazionismo filotedesco e ultranazionalista che si innescò l’avvio fattuale della persecuzione e, in immediata successione, dell’annientamento degli ebrei ucraini. Anche se l’intera architettura rimase sempre nelle mani dei tedeschi. La prima fase dello sterminio, infatti, si inscriveva nella lotta antisovietica, nell’enfatizzazione dell’antibolscevismo (leggendo il comunismo come peculiare creazione dell’ebraismo) e nell’auto-esaltazione che il nazionalismo autoctono manifestò dal momento in cui le truppe di Berlino varcarono, con il 22 giugno 1941, il confine territoriale tra i due paesi. Nel mentre la polizia politica sovietica, l’Nkvd – mano a mano che l’esercito tedesco avanzava in profondità – provvedeva a sgombrare il campo (non prima tuttavia di avere giustiziato i detenuti politici trattenuti nelle sue carceri), scoppiarono pogrom “spontanei” istigati, promossi e coordinati dagli esponenti dell’OUN. In alcuni casi una parte di essi si consumarono prima ancora che le truppe sovietiche si fossero definitivamente allontanate. L’equazione tra giudaismo e bolscevismo era la motivazione trainante dei raid che si succedettero un po’ in tutte le località urbane e, molto spesso, anche nei villaggi di campagna, laddove la popolazione era mista. «I pogrom erano il sintomo della scomparsa di ogni autorità e, di conseguenza, erano più diffusi nei piccoli centri urbani e nelle campagne che nelle grandi città» (Eli Tzur).

Di fatto furono vissuti dalla popolazione locale come il ricorso ad un risarcimento di fatto, ad una tragica compensazione da avanzare ai danni di quella componente di ampia e diffusa minoranza, gli ebrei per l’appunto, che ora veniva additata come «cosmopolita», espressione di un’alterità che era denunciata in quanto alterazione, minaccia agli interessi del tessuto sociale autoctono. La fresca memoria della recente oppressione moscovita, e della tragedia dell’Holodomor, veniva quindi immediatamente piegata alle occorrenze nazionaliste laddove queste avevano un preesistente impianto antisemita. Nel suo insieme, la politica subiva una violenta torsione etnica, quindi una sua riformulazione in chiave rigorosamente razzista: gli ebrei, in quanto gruppo separato dal resto della società, costituivano, per il solo fatto di esistere, un corpo non solo estraneo ma anche pericoloso. Quindi, da neutralizzare.
Peraltro, già alcuni dirigenti dell’OUN in quei giorni di invasione avevano provveduto a dichiarare la nascita di uno Stato ucraino indipendente, sanzionata da Andrey Sheptysky, il maggiore esponente della Chiesa uniate ucraina. Una tale decisione già il 1° agosto 1941 fu tuttavia bruscamente devitalizzata dalla decisione tedesca di annettere il territorio della Galizia orientale al Governatorato generale, l’autorità che governava dalla fine del 1939 i territori polacchi non annessi alla Germania nazista. La Volinia, a sua volta, un mese dopo entrò a fare parte del Reichskommissariat Ukraine, l’amministrazione civile dittatoriale guidata da Erich Koch fino al marzo del 1944. Allo stesso tempo, gli occupanti furono bene attenti a non concedere alcun posto di potere significativo ai nazionalisti, relegati ai margini della nuova burocrazia che venne velocemente costituita nei territori occupati. Le disposizioni, al riguardo, erano tanto rigorose quanto tassative: si doveva spegnere sul nascere qualsiasi anelito di autonomia; l’invasione era in esclusiva funzione degli interessi della Germania e nessun spazio pubblico poteva e doveva essere condiviso con le istanze locali, soprattutto se indirizzate ad un qualche di disegno di indipendenza. Semmai queste potevano ricevere una limitata delega di controllo dei territori ma in funzione puramente ancillare alla volontà e agli interessi germanici. Da questo punto l’antiebraismo, declinato come antibolscevismo, poteva allora costituire un punto di occasionale contatto con quelle forze che cercavano, confusamente, di muoversi sul campo ma non doveva offrire nessuna legittimazione alle velleitarie aspettative rispetto ad un qualche disegno politico autonomo.

L’attivo degli Einsatzgruppen, le «unità operative» che dovevano procedere alla “bonifica” delle retrovie e alla realizzazione del Kommissarbefehl, diede forma, metodo e continuità alle pratiche di distruzione. Se fino all’ingresso della Wehrmacht l’azione era stata attuata da gruppi di violenti e facinorosi in parte auto-organizzatisi (avendo anche ad obiettivo l’appropriazione dei beni delle vittime) e in parte già coordinati clandestinamente dall’OUN e dai suoi emissari, da quel momento assunse una sistematicità e continuità quali non si erano mai viste. L’Einsatzgruppe C (operante nelle province settentrionali e centrali del Paese) e il D (presente nelle province meridionali, in Crimea, Bessarabia e poi nel Caucaso), forti di meno di mille uomini ciascuno, avviarono da subito le loro attività, facendosi coadiuvare dalle SS, da uomini e reparti della polizia militare e delle Waffen-SS, dai miliziani collaborazionisti ucraini. Occasionalmente, partecipavano anche membri dell’esercito regolare. La quasi totalità delle azioni di annientamento venivano condotte a cielo aperto, in genere in zone boschive prospicienti i luoghi abitati dalle vittime, senza nessun vincolo di segretezza, contando da subito sulla compromissione della popolazione locale così come della Wehrmacht.

In un primissimo tempo si presentò l’insieme delle azioni criminali contro i civili come neutralizzazione della residua presenza sovietica. Ricadevano da subito, in questa tipologia, soprattutto gli ebrei. In genere, si aizzavano le folle in pogrom sempre più sanguinosi, istigando e sollecitando un clima di esasperazione e furore. Poi si procedeva, anche grazie alla diffusa pratica delle denunce e delle delazioni, all’eliminazione delle figure di maggiore rilievo delle comunità ebraiche locali, colpendo prevalentemente i maschi adulti. Ciò comportava che la parte restante della popolazione ebraica rimanesse sotto scacco, destinata al ricatto delle circostanze, fragile e vulnerabile dinanzi ad un ambiente resosi completamente ostile. Nel giro dei mesi successivi, anche quest’ultima veniva inghiottita nel crepaccio dello sterminio.
Alle attività criminali delle unità operative si accompagnava la serrata produzione e l’immediata applicazione, secondo gli abituali standard nazisti, di una normativa il cui obiettivo era di isolare fisicamente e depauperare economicamente gli ebrei. Il percorso di «arianizzazione» era già stato collaudato, proprio a partire dalla Germania. Veniva ora repentinamente esteso, in forma tanto rafforzata quanto razionalmente condensata, ai territori occupati, con un’accelerazione sorprendente, agevolata dal fatto che si presentava il tutto come compimento di una lotta ideologica e teleologica contro il male radicale del «giudeo-bolscevismo». Anche quella parte della società ucraina, pur vicina agli ambienti nazionalisti ma altrimenti meno radicalizzata, poteva ora riconoscersi in un percorso di implacabile persecuzione. Peraltro, alle norme amministrative che espropriavano gli ebrei di tutti i loro beni si accompagnavano le misure per il lavoro forzato. Il paradosso che per un certo arco di tempo si ingenerò era dato dal fatto che chi veniva reclutato nei battaglioni per il lavoro coatto poteva cercare di sottrarsi, almeno per un po’, all’uccisione, risultando necessario all’impegno bellico tedesco in Ucraina. Si trattava, beninteso, di una prerogativa del tutto occasionale. La sistematica rapina dei beni ebraici peraltro alimentava gli appetiti e l’ingordigia di quanti ne erano coinvolti, generando vere e proprie competizioni per il controllo delle risorse, materiali e umane, soggette alle diverse giurisdizioni che controllavano e dominavano il territorio ucraino.

Le politiche di espropriazione fecero da premessa sia alla creazione dei ghetti (Ucraina occidentale) sia alla fucilazione immediata della popolazione ebraica (Ucraina orientale). Il massacro più noto, compiutosi in trentasei ore, tra il 29 e il 30 settembre 1941, fu quello degli ebrei di Kiev, per mano degli uomini dell’Einsatzkommando 4a, guidato da Paul Blobel, con la morte di 33.771 persone nella gola di Babyn Jar. Ma anche la comunità ebraica di Odessa, che prima della guerra poteva contare su 185mila elementi, fu completamente distrutta tra l’ottobre 1941 e il maggio del 1942. Le medesime cose si posso dire di molte altre località ucraine, dalle grandi agglomerazioni urbane (ad esempio Charkiv, Cherson, Mykolaïv) alle diffusissime realtà rurali. Nel complesso, calcolando la popolazione ebraica che risiedeva in quelle porzioni di territorio, oggi ucraino – ma che allora erano divenute parti del Reichskommissariat Ukraine, del Governatorato generale (in Polonia), del Governatorato generale della Crimea e in alcune aree sotto controllo militare ad est del Reichskommissariat Ukraine, anch’esse sottomesse alla Germania nazista, come anche nel Governatorato della Transnistria e nella Bucovina settentrionale (entrambe occupate mentre quest’ultima era stata annessa alla Romania) e la Rutenia subcarpatica (allora parte dell’Ungheria) – si calcola che le vittime furono tra il milione e duecentomila (Dieter Pohl) e il milione e seicentomila.

Del milione e mezzo di ebrei che vivevano dentro i confini territoriali della Repubblica socialista sovietica Ucraina prima del 1939, la metà di essi fu assassinata entro la primavera del 1942. In genere si trattava di quella parte della popolazione che, a vario titolo, era reputata «improduttiva». Dopo di che, gli ebrei ancora viventi nelle province dell’Ucraina occidentale, in Volinia, Galizia orientale e nella Transnistria, furono sistematicamente eliminati, in un’operazione per più aspetti parallela e concorrente alla cosiddetta «Aktion Reinhard», la distruzione sistematica dell’ebraismo polacco. Nell’insieme di queste operazioni, se in un primo tempo prevalsero priorità e obiettivi eterogenei (la disintegrazione della presenza sovietica, la “liberazione” di edifici e alloggi per gli occupanti, la pulizia etno-razziale di singoli distretti, i pogrom sempre più feroci e così via), in un secondo momento ci si adoperò per cancellare ciò che rimaneva con assoluta celerità, radicalità e sistematicità. I metodi di uccisione peraltro differivano, e non di poco, da quelli utilizzati per l’ebraismo polacco. La ghettizzazione, antecedente organizzativo dell’omicidio di massa vero e proprio, fu perseguita laddove possibile, soprattutto nei grandi centri urbani ma, con l’estate del 1942 era di fatto quasi del tutto cessata, venendo a mancare chi poteva esserne imprigionato. Dall’Occidente, peraltro, non arrivarono convogli come invece capitò con i ghetti in terra polacca e baltica. Inoltre, nonostante la vicinanza delle strutture di sterminio, perlopiù situate nei territori orientali del Governatorato generale, non vi furono trasferimenti e deportazioni di massa. Si procedeva invece attraverso le fucilazioni di massa. Solo alcuni uomini, gli operai specializzati che servivano all’economia di guerra tedesca, ne furono risparmiati per un certo periodo di tempo, salvo poi essere a loro volta uccisi entro la prima metà del 1943. Nella Galizia orientale annessa al Governatorato generale, la componente ebraica fu separata dal resto della popolazione, e ghettizzata temporaneamente, tuttavia all’interno di strutture la cui gestione era diversa da quella esercitata nella Polonia occupata, essendo più un luogo di raccolta temporanea in attesa di una veloce eliminazione. Chi sopravvisse ancora per un po’ a queste misure fu costretto a subire il brutale sfruttamento forzato nei ghetti trasformati in campi di lavoro e poi assassinato. Le stesse autorità tedesche annunciarono nel novembre del 1943 che la Galizia era ora Judenrein, ossia «ripulita» integralmente dalla presenza ebraica.

Nel loro complesso, le operazioni di sterminio furono il risultato di una commistione di attività, in parte pianificate ed in parte “spontanee”, tutte però inserite all’interno dell’obiettivo di disintegrare l’intero insediamento ebraico. Ad esse concorsero più elementi organizzati. La filiera operativa vedeva negli Einsatzgruppen C e D il fulcro di tutte le attività criminali. Questo poiché la gestione doveva rimanere saldamente in mano ai tedeschi. Ad essi si univano tuttavia i reparti di Ordnungspolizei, la polizia dell’ordine tedesca; i Freiwilligen-Stammesregimenter (i reggimenti volontari etnici stranieri) 3 e 4, il primo composto da russi e il secondo da ucraini; le unità ausiliarie ucraine, conosciute come Schutzmannschaften-Schuma («unità di protezione») o Ukrainische Hilfspolizei («polizia ausiliaria», termine che tuttavia risultava meno convincente ai tedeschi, non volendo conferire agli autoctoni un potere delegato ma solo un ruolo subordinato). A questa congerie di elementi vanno poi aggiunti anche singoli reparti della Wehrmacht quand’essi si prestarono occasionalmente a partecipare alle fucilazioni, e componenti dei battaglioni di polizia dei tedeschi etnici (SS-Polizei Battaillone), istituiti dal 1939 in poi. Il coinvolgimento dell’esercito regolare tedesco fu, in proporzione, molto più contenuto soprattutto poiché questo era impegnato nei combattimenti di prima linea oppure nella gestione delle gigantesche linee di logistica. Non si trattava, quindi, di una scelta strettamente ideologica ma del risultato di una complessa disposizione organizzativa ed operativa che assegnava a forze diverse compiti distinti.

La presenza di nazionalisti ucraini, a partire dall’UPA, a fianco dell’esercito tedesco, perlopiù in funzione di guardia e presidio del territorio, fu consistente. Circa 250mila elementi vennero arruolati nei diversi corpi costituiti ad hoc, tenuti volutamente separati, affinché non costituissero una massa unitaria di combattenti, capace – nell’eventualità – di rivolgere le armi contro l’occupante. Tra le diverse entità che manifestarono un’effimera ma tragica presenza vanno annoverate le Unità militari nazionaliste (VVN), le Confraternite dei nazionalisti ucraini (DUN), la 14ma Waffen-Grenadier-Division der SS, l’Esercito di liberazione ucraino (UVV) e l’Esercito nazionale ucraino (Ukrainische Nationalarmee, UNA). Entro la fine del 1942, nel solo Reichskommissariat Ukraine le SS impiegavano – non però in ruoli assimilati a quelli tedeschi – ben 238mila ucraini a fronte di 15mila tedeschi. Peraltro, a quella data la «soluzione finale della questione ebraica» in Ucraina era già pressoché risolta. A tale riguardo, la polizia ausiliaria, la Schuma (istituita il 25 luglio 1941 e subordinata alla polizia dell’ordine germanica), la cui ramificazione interessava quasi tutti i territori sovietici occupati, arrivò ad impegnare circa 300mila elementi. In un tale quadro, entro il 1942 erano attivi complessivamente circa 200 battaglioni, di cui 71 ucraini (21 estoni, 47 lettoni, 26 lituani, 11 bielorussi, 8 tartari). La forza attiva di ognuno di essi era di circa 500/700 uomini, per quattro compagnie, non venendo impegnati in combattimenti di prima linea ma per il controllo dei territori e delle retrovie. Il loro comando era affidato sempre ad un militare tedesco. Le Schutzmannschaften (che in Ucraina comprendevano 35mila militi insieme a 70mila addetti alle stazioni fisse di polizia territoriale, il tutto a fronte di una presenza di non più di 10.194 uomini della polizia d’ordine tedesca) erano componenti integranti della struttura operativa della polizia tedesca. Tuttavia, solo una piccola parte degli ausiliari locali era armata, occupandosi delle questioni di ordine penale ed esercitando, di fatto, un vero regime di abusi e vessazioni nei confronti degli stessi connazionali. Mancando di una divisa comune, i più portavano le uniformi d’anteguerra, accompagnate da un bracciale di riconoscimento. Non potevano indossare segni di identificazione tedeschi, a partire dall’aquila nazista e dalla svastica, ma potevano ricevere alcune decorazioni germaniche. L’armamento era prevalentemente quello sequestrato ai sovietici, e rigenerato per l’uso, con particolare predilezione per i fucili e le rivoltelle. Il trattamento riservato dai tedeschi ai loro servitori era comunque assai raramente dignitoso. Le unità del Terzo Reich avevano infatti la precedenza su tutto e tutti, a partire dai trasporti, da munizionamento e dal cibo. I collaborazionisti, in buona sostanza, dovevano rimanere sempre e comunque in un cono d’ombra, semmai prestandosi, quando a ciò richiesti, nello svolgimento dei compiti maggiormente ripugnanti ma sempre sotto la rigida supervisione tedesca.
Per parte ebraica, infine, vi furono alcune flebili manifestazioni di resistenza, molto frammentarie. La repentinità dell’invasione tedesca e la violenta, nonché quasi immediata, distruzione degli insediamenti ebraici, dai quali erano già fuggiti verso Est, insieme alle truppe sovietiche, diversi tra gli elementi più giovani e politicamente impegnati, pesarono come fattori indice. Le comunità ebraiche erano abbandonate a se stesse. Inoltre, la presenza sul territorio delle diverse componenti nazionaliste, sia ucraine che polacche, organizzatesi in forme di mutevole resistenza – tra di esse l’UPA e l’Armia Krajowa – tuttavia tutte connotate da un profondo antisemitismo, non permise alcun raccordo operativo, anche quando ve ne fossero state le condizioni. Soltanto il partigianato sovietico, che manifestò la sua presenza dall’autunno del 1941, poteva accogliere gli ebrei combattenti. Ma quand’esso arrivò a ramificarsi come movimento strutturato, nella tarda primavera del 1942, oramai l’ebraismo ucraino era stato quasi integralmente annientato. Quanti erano ancora sopravvissuti, perlopiù singoli elementi, erano a loro volta stremati e annichiliti. Si unirono tuttavia alla lotta contro i tedeschi. Il movimento resistenziale sovietico in Ucraina arrivò quindi a contare su una presenza di ebrei che variava dall’1% al 4% dei suoi componenti. Di fatto esso non poté operare nulla contro i massacri indiscriminati, posto che la quasi totalità di essi si era già consumata. È stato ricordato che «nell’Ucraina occidentale le azioni di soccorso furono condizionate dal conflitto etnico-multirazziale in atto in quella regione, dove – parallelamente alla guerra tedesco-sovietica – si stava combattendo una lotta armata fra i nazionalisti ucraini, la minoranza polacca e i partigiani sovietici» (Eli Tzur).

L’esercito sovietico entrò in Ucraina nell’autunno del 1943, nell’ambito delle grandi offensive che avevano preso corpo nella tarda primavera di quell’anno, terminando tuttavia le operazioni di respingimento dei tedeschi verso Occidente solo nell’estate del 1944. A quel punto, ciò che restava della popolazione ebraica d’anteguerra era solo la sua pallida ombra. Il ritorno dei sovietici, a fronte di una diffusa presenza di nazionalisti, fu peraltro l’occasione offerta ai secondi per innescare nuove violenze contro i pochissimi superstiti e quanti, dopo essere fuggiti, tornavano alle loro case. Il connubio tra anticomunismo, nazionalismo etnico e antisemitismo permaneva più che mai saldo, dando corso a nuovi pogrom, come nel caso di Kiev. Gli scampati presenti nell’Ucraina occidentale optarono quindi per la cittadinanza polacca per poi emigrare verso l’Europa occidentale e Israele, in ciò seguiti, negli anni Settanta e Ottanta, dai correligionari dell’Ucraina orientale. Le cifre di questa catastrofe – non solo lo sterminio fisico di intere comunità ma anche l’etnocidio, la distruzione di insediamenti socioculturali secolari – rimangono a tutt’oggi certe nelle loro dimensioni di grandezza ma presunte sul piano dei numeri effettivi, posto che la Seconda guerra mondiale fu, in quei luoghi, una incommensurabile carneficina di indifesi. Ben più che in altri teatri di combattimento e occupazione.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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