Cultura
Il tempo e la memoria

Sulla storia, la testimonianza e la società di oggi

Forse c’è qualcosa che dobbiamo ancora ricordarci, a parziale chiusura di una parte delle iniziative per il Giorno della Memoria di quest’anno, ossia che la paura divide e rende ostili. Gli imprenditori politici del disagio, quelli che lo capitalizzano a proprio beneficio, vaticinando imperi millenari o, più banalmente, improbabili armonie dopo una qualche tempesta, ben conoscono questo precetto della psicologia sociale, applicandolo sistematicamente, per rendersi meglio credibili dinanzi ai loro sostenitori. Allora, in quegli anni terribili, così come ancora oggi, al netto delle tante differenze tra il prima e il poi, il rimando al «terrore» si esercita come processo di fidelizzazione delle collettività attraverso sia la distruzione delle opposizioni (tali poiché uniche in grado di offrire uno sguardo alternativo allo stato vigente delle cose) sia generando e rinnovando l’angoscia del sospetto e della minaccia, quella che deriva dal sentirsi in balia delle circostanze e del caso. Il totalitarismo novecentesco, se si intende usare questo lemma altrimenti assai discusso, trova il suo punto di forza nel trasformare la brutalizzazione che va incentivando in bisogno di protezione da parte delle collettività. Le quali, non a caso, conferiscono ad esso una delega totale, irrevocabile e insindacabile, chiedendo per sé tutele, al netto di qualsiasi residua libertà.

Così come va detto – ed è un altro passaggio indispensabile da chiarire costantemente – che i prigionieri dei lager erano (e rimangono, nella coscienza che si può preservare e tramandare delle loro terribili esperienze) delle vittime indifese, tali poiché impossibilitate nel dare risposte che non fossero i fragili tentativi quotidiani di sopravvivenza, messi in atti a titolo individuale. La forza dei sistemi concentrazionari, infatti, è quella di spezzare ogni resistenza prima ancora che gli individui ne siano concretamente reclusi. È questa, tra le altre, una delle differenze da qualsiasi altra forma di detenzione, poiché essa giunge a conclusione di un processo di degradazione sociale, di emarginazione sistematica, di annullamento civile di cui la morte biologica è solo l’ultimo anello, organizzato secondo una sequenzialità rigida e razionalista. Qualcosa che non esiste malgrado la nostra modernità ma grazie ad essa. Come in una sorta di illuminismo capovolto, dove il processo di evoluzione sociale non collima con l’umanità bensì con la sua selezione razzista.

Le retoriche istituzionali, da questo punto di vista, rischiano invece di cancellare la complessità di tali dinamiche, cristallizzando quel fenomeno che incautamente è risolto nella parola «memoria». Quest’ultima, infatti, più che atto di coscienza si trasforma allora in un ulteriore esercizio di inconsapevole celebrazione del lutto e di assunzione civile dell’idea di morte all’interno delle trasformazioni indotte dal passaggio da un predominio del pensiero religioso a quello laico. Per capirci, ancora una volta la pietra miliare sulla quale misurare molti dei fenomeni storici successivi è la Prima guerra mondiale, con i suoi esiti di lungo periodo, estesisi per almeno i due decenni seguenti. In questo caso, la memoria ancora vivissima delle carneficine subite soprattutto dalla generazione più giovane sui campi di battaglia, la misura dell’insensatezza del protrarsi dei combattimenti, la dimensione allucinata di essi, il boato tecnologico delle distruzioni, i riflessi angoscianti sulle popolazioni civili e molto altro furono sublimati dentro i costrutti di una religione civile della patria. Così per i cippi, le lapidi, la monumentalità dedicata agli infiniti morti, in una sorta di sacrario collettivo che attraversava l’intera Europa protagonista di quella immane tragedia.
Il testimone non aveva voce, all’epoca, se non all’interno di circoli ristretti di reduci e sopravvissuti, dove si lenivano ferite ma si coltivavano anche rancori, oppure dentro un discorso istituzionale che ne celebrava la vocazione al «sacrificio», nel nome di idealità astratte, che sarebbero state fragorosamente smentite dalla successiva guerra mondiale non prima, tuttavia, dell’avere costituito da propellente ideologico per il nazifascismo.

A partire da un tale quadro, dopo il 1945, si afferma in un primo, lungo tempo la figura del vincitore. Non è la prosecuzione lineare di quella del soldato massa del conflitto 1914-1918 ma l’alfiere di una guerra di liberazione, combattuta in diversi modi, sia in formazioni regolari che in quelle partigiane. Tra coscritti e «ribelli», ancora una volta giovanissimi militari che vestivano le divise degli eserciti alleati e di quello sovietico, oppure che si erano dati alla macchia per poi contrastare attivamente l’occupante nazista e fascista, si era creata come una sorta di implicita saldatura. Il collante di essa era quella di avere combattuto attivamente la barbarie. Quand’anche, beninteso, si tacesse di altri totalitarismi, allora per nulla decaduti. La vera figura centrale in questo proscenio non era quindi il «comunista» oppure il «G.I.» («Government Issue», «General Issue» oppure la «Ground Infantry» così come il «galvanized iron») o quant’altri bensì il partecipante ad un’impresa collettiva, galvanizzante, basata sull’annichilimento del nazifascismo, verso orizzonti di costruzione di un futuro fondato sulla promessa di un nuovo orizzonte di libertà e giustizia.

L’attenzione crescente verso la deportazione, sia razziale che di altra natura, si accompagna invece all’affermarsi di una vera e propria «era del testimone», che inizia a manifestarsi con gli anni Settanta del Novecento. Di fatto risponde a molte sollecitazioni, non da ultimo il declino anagrafico dei protagonisti, ma trova il suo raccordo principale in fenomeni sociali compositi, dove al tramonto della partecipazione politica (quella dimensione relazionale che induce nei suoi protagonisti la percezione, o l’illusione, di potere essere artefici collettivi del proprio futuro) subentra un’epoca dove l’umanitarismo si trasforma in grammatica delle relazioni sociali. In quest’ultimo caso, alla figura attiva, dinamica e tendenzialmente emancipata che era disegnata come una sorta di aura del «combattente per le libertà», si accompagna, si sovrappone e poi si sostituisce quella della vittima, il cui eroismo non è attivo (cambiare lo stato delle cose) ma auto-difensivo (evitare che le cose cambino se stessi, al limite della propria distruzione).
I «vinti» e gli sconfitti, ancora una volta, sono esclusi dal libro della storia poiché raccontano di ciò che l’umanità non intende essere. Semmai ne costituiscono un capitolo a sé, da fare oggetto di resoconto con tutte le cautele del caso. Le vittime, invece, assumono nell’immaginario collettivo la funzione, a tratti quasi carismatica, che precedentemente era stata dell’eroe combattente. Una tale asimmetria del ricordo – la glorificazione di persone prima ignorate e il sopravveniente oblio nei riguardi di chi invece era stato idealizzato – mette in luce quale sia il profondo legame della memoria collettiva con il presente. Essa, infatti, non risponde al bisogno di storia ma alla necessità di offrire un inquadramento di significato a ciò che avviene nel momento stesso in cui la domanda di memoria viene espressa. È come una ricerca di codici di senso che cercano in ciò che è avvenuto gli strumenti per capire almeno qualcosa di quanto si sta consumando. È senz’altro vero che la storia, non solo come disciplina di studi ma in quanto complesso di procedure e metodologie, nasca dalla memoria. Ma da quest’ultima, nel corso del tempo, se ne differenzia prima per poi emanciparsene. Poiché la legge come una forma spuria, comunque inadeguata, spesso personalista, di comprensione del trascorrere del tempo. La storia considera il passato come un tempo a sé stante, un tempo che si consuma in un arco cronologico definibile, con un inizio ed una conclusione. Si tratta di un succedersi di parentesi tra di loro concatenate ma anche dotate di una peculiare autonomia.
Nella storia, la lettura del tempo trascorso ha un significato cosciente: è quindi un esercizio autoriflessivo, di natura intellettuale, capace di trasformare ciò che fu in un oggetto definito e circoscritto. Nella memoria, invece, molto di questo non succede poiché l’identificazione con la condizione di vittima accende il bisogno di un’indagine e di un riconoscimento fondati sull’esperienza emotiva, sulla condivisione affettiva, sulla reciprocità morale. Soprattutto, la memoria opera se è anche sforzo di risarcimento simbolico. Non a caso, quindi, trasla dalle vittime medesime ai loro congiunti e alle generazioni successive, laddove questi ultimi si fanno carico di avanzare le domande di umanità che in essa sono coltivate.

Rimane il fatto che nelle nostre società storia e memoria non siano due universi rigidamente circoscritti, trattandosi semmai di categorie fluttuanti all’interno di un campo dinamico di relazioni. La memoria preserva il suo carattere di costruzione identitaria filtrata dal trascorrere del tempo e dalle diverse stagioni culturali e sociali. Ricorda lo storico Enzo Traverso: «Il racconto della prigionia ad Auschwitz da parte di un deportato ebreo comunista spesso non è lo stesso, prima o dopo la rottura con il partito. Prima, nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, emerge principalmente la sua identità politica, il fatto di essere stato un deportato antifascista; dopo, a partire dagli anni Ottanta, egli si presenta in primo luogo come un deportato ebreo e testimone dell’annientamento degli ebrei d’Europa […] Entrambe le due testimonianze sono vere e autentiche, ma ciascuna illumina una parte di verità filtrata dalla sensibilità, dalla cultura e anche dalle rappresentazioni identitarie, a volte ideologiche, del presente. La memoria è sempre una visione del passato filtrato attraverso il presente».
Rimane un passaggio spesso problematico: l’uso della memoria, il suo ricorso ad una declinazione istituzionale, partecipa di quel processo di presentificazione per il quale ciò che vale nel codice etico di una collettività è quanto riposa sull’immedesimazione in una qualche idea di esperienza basata sull’empatia. Una virtù morale, quest’ultima (immaginarsi nei panni altrui), imprescindibile ma che da sola non basta a dare sostanza e spessore ad un tessuto civile che sia pienamente cosciente di sé. In questo caso gli eventi, gli accadimenti – infatti – non sono mai un punto fisso, condiviso, che possa essere ricostruito a posteriori con un processo di indagine a ritroso; semmai sono le immagini che abbiamo del presente proiettate all’indietro. Il rischio che un tale modo di interagire con il tempo, di per sé pur legittimo, si trasformi in un prisma normativo nella scrittura delle identità individuali e collettive è tale da potere generare un risultato esattamente opposto a quello desiderato. Ovvero, non una maggiore conoscenza che diventa coscienza ma un susseguirsi di moniti che si svuotano da soli, nel momento stesso in cui vengono pronunciati.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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