Cultura
La Shoah e Israele

La Shoah riveste nel Paese un valore che va al di là del fatto storico in sé, trasponendosi sul piano simbolico della vita quotidiana. In ciò, l’eccezionalità dello sterminio degli ebrei si ricollega con l’eccezionalità dello Stato d’Israele

Per capire il rapporto tra Israele e la Shoah è bene soffermarsi su alcuni antefatti, prima di precipitarsi sul presente. Il «Libro bianco MacDonald» del maggio 1939 – la denominazione dei documenti inglesi sull’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria tra il 1918 e il 1948 –  metteva una pietra tombale sulle speranze del sionismo palestinese e di quello europeo, concedendo l’accesso nel paese a non più di 75.000 persone in un quinquennio. Si prevedano 10.000 ingressi all’anno per un periodo transitorio di 5 anni. Ad essi si aggiungevano 25.000 «rifugiati». Il rigido sistema mandatario dei «Certificatim», i certificati di immigrazione legale concessi ogni anno dall’Inghilterra, era il nodo scorsoio nel cui cappio si chiedeva all’ebraismo di mettere la testa.

La situazione nel continente stava velocemente degenerando. L’Agenzia ebraica aveva chiesto alle autorità britanniche di concedere il visto d’ingresso per non meno di 100.000 tedeschi, oramai profughi in patria, oltre all’asilo umanitario per 22.000 bambini. Il problema che si andava delineando era l’impossibilità, per molti ebrei, di trovare un qualsiasi luogo, non importa quale, in cui riparare, almeno temporaneamente. Da questo punto di vista il movimento sionista, ancorché attrezzato a far fronte ai flussi migratori, si trovò ben presto dinanzi ad una realtà le cui proporzioni sfuggivano alle sue stesse capacità di offrire una qualche risposta. Nel giugno del 1938 si tenne nella cittadina termale francese di Evian un incontro internazionale, cui parteciparono trentadue paesi, per discutere della sorte dei profughi europei, perlopiù ebrei che fuggivano dalla Germania nazista, e che si concluse con un nulla di fatto, avendo deciso i partecipanti di mantenere le quote d’immigrazione vigenti precedentemente all’incontro stesso.

La Conferenza di Evian, convocata per offrire una soluzione alla questione del crescente numero di profughi, era miseramente fallita per la deliberata volontà delle potenze sedutesi intorno al tavolo di non pervenire ad un qualche risultato. Gli ebrei europei erano stati abbandonati al loro destino, in buona sostanza. I tentativi di colloquio con le leadership arabe, quando tentati, non ebbero nessun seguito: queste ultime, sentendo approssimarsi i venti di guerra, pensavano di poterli volgere a loro favore. Ragione per cui non avevano nessuna intenzione di mediare con gli esponenti di una controparte che, nelle speranze di certuni, di lì a non molto tempo sarebbe stata spazzata via dall’evoluzione degli eventi.

Se l’ennesimo Libro bianco fu quindi accolto dall’Yishuv, l’insediamento ebraico nella Palestina mandataria, come un’inaudita provocazione, per gli ebrei europei rischiava di tramutarsi nel lugubre viatico per un’immane tragedia. Politicamente, per la presidenza dell’Organizzazione sionista mondiale ricoperta da Chaim Weizmann, era una doccia fredda poiché rivelò in ultima analisi come gli interessi ebraici premessero ben poco al governo britannico. Per chi, come il leader sionista, aveva legato le sorti del progetto collettivo (e le sue personali) al rapporto preferenziale con Londra, la delusione fu netta, venendo vissuta alla stregua di un tradimento della buona fede.

Il XXI congresso sionista, tenutosi a Ginevra, nell’agosto del 1939, fu quindi contrassegnato da foschi presagi: i segni premonitori di una sciagura incombente, di cui però non si poteva avere ancora la piena misura, si andavano accumulando. In Germania, oramai prossima alla guerra, l’antisemitismo – trasformato in politica di Stato – aveva aperto agli ebrei le porte dei campi di concentramento. La quasi totalità dei paesi europei avevano voltato le spalle ai fuggiaschi. La politica britannica in Palestina impediva ogni soluzione negoziata. Vladimir Ze’ev Jabotinsky, leader della destra sionista «revisionista», parlerà al riguardo di un «sionismo di catastrofe», intendendo dire che la gravità della situazione avrebbe richiesto gesti estremi, come l’evacuazione immediata di tutte le persone in pericolo di morte. Le cose, quindi, per essere affrontate comportavano uno sforzo di ingegno e, soprattutto, di coraggio: si trattava di avviare la pratica delle immigrazioni clandestine opponendosi inoltre alle autorità mandatarie con tutti gli strumenti a disposizione.

Di fatto, se ci si adoperò per il primo obiettivo, riguardo al secondo le cose andarono ben diversamente. Poiché quello che si era aperto con l’invasione tedesca della Polonia era un conflitto a sfondo ideologico, una Weltanschauungskrieg (la guerra tra opposte concezioni del mondo, l’«arianesimo nazista» e il «giudeo-bolscevismo»), gli ebrei non potevano che scegliere i paesi che al nazismo si opponevano. La lealtà alla Gran Bretagna, quindi, non venne mai messa in discussione, traducendosi pertanto nella scelta, più per necessità che per virtù,  non di combattere contro bensì per la Union Jack. Con l’eccezione di alcune componenti minoritarie, legate al revisionismo più radicale, la leadership sionista palestinese era oramai saldamente nelle mani di David Ben Gurion, il quale definì l’ispirazione di fondo dell’Yishuv quando affermò che: «combatteremo la guerra come se non esistesse il Libro bianco e combatteremo il Libro bianco come se non ci fosse la guerra».

La questione dell’immigrazione veniva così disgiunta da quella dei rapporti politici: era l’unico modo per affrontarle entrambe come parti distinte di una medesima priorità, quella di garantire la sopravvivenza degli ebrei e dell’insediamento in Palestina. L’una non poteva essere contro l’altra. Il nocciolo di fondo della questione, al di là delle condotte assunte dalle leadership nazionali, è che l’intero ebraismo, a partire da quello continentale, subisce nel corso dei sei anni di guerra uno stravolgimento completo. Fatto che si riverbererà profondamente sui destini stessi dell’Yishuv, cioè sui suoi progetti e sul suo modo di realizzarli.

Tra il 1939 e il 1945 la quasi totalità dei tre milioni e mezzo di ebrei polacchi è letteralmente sterminata. Ogni comunità europea viene colpita, più o meno intensamente, dalla ferocia nazista. All’alba del 1945 dell’originario insediamento ebraico nel continente, erano rimasti i sopravvissuti: alcune grandi comunità in Urss, presto di nuovo nella morsa dello stalinismo; quelle della Gran Bretagna e gli scampoli nel resto d’Europa. Di fronte a questo immane sconvolgimento il problema prioritario era quindi quello di capire la dimensione e la natura dell’autonomia politica che la comunità ebraica palestinese avrebbe potuto godere in quegli anni. In altre parole, quali fossero gli effettivi spazi d’azione per un gruppo di persone, circa mezzo milione di ebrei, di fatto isolate in un contesto politico e sociale avverso, tra una popolazione araba perlopiù ostile e una autorità mandataria che aveva chiuso i canali di accesso al paese. Ha scritto lo storico Yoav Gelber: «Sino al 1933 la struttura creata dal sionismo rimase essenzialmente un esperimento sociale e politico, senza alcun rapporto con i problemi della maggioranza della Diaspora; l’avvento al potere dei nazisti in Germania trasformò invece la sua posizione, facendone la meta di un esodo di massa. […] In quegli anni il principale obiettivo politico dei dirigenti sionisti consistette nel mantenere ben chiaro il collegamento fra la catastrofe europea e la questione palestinese. [Ma] nell’autunno del 1935, dopo la promulgazione delle leggi di Norimberga, le organizzazioni ebraiche non sioniste si orientarono gradualmente verso altre terre di rifugio, respingendo la tesi sionista che indicava come unica meta la Palestina. Senza un legame diretto con la Palestina, lo Yishuv non prendeva in considerazione i tentativi di difendere l’emancipazione e migliorare la situazione degli ebrei, mentre gli ebrei americani e inglesi davano la priorità ai problemi dei profughi anziché all’impegno dei sionisti. Entrambe le iniziative si chiusero con un insuccesso».

La situazione sfuggì di mano ai protagonisti dal momento in cui il Libro bianco del maggio 1939 pose l’ipoteca più grossa ad ogni successiva mossa. David Ben Gurion si rese allora conto della sterilità della contrapposizione tra le posizioni del sionismo palestinese e quelle dell’ebraismo americano in merito all’ emigrazione dalla Germania ma i giochi, per buona parte, erano già stati fatti. L’Yishuv, che pure sarebbe uscito rafforzato dalla terribile prova, aveva concretamente maturato il timore che le porte dell’abisso si stessero per aprire anche ai suoi piedi. Nel 1941-1942 la possibile vittoria delle armate tedesche e dell’Asse nell’Africa del nord costituiva più di un’ipotesi, trattandosi di un concreto pericolo. I mezzi a disposizione della dirigenza palestinese erano scarsissimi, riducendosi all’immigrazione illegale (contro gli inglesi) e al contributo allo sforzo bellico alleato (a favore degli inglesi). La prima si concretizzò nel progetto clandestino dell’«Aliya Beth» che permise l’«ha’apalah», l’ingresso clandestino fino alla fine della guerra di 12mila «ma’apilim» («sfidanti», cioè immigranti illegali), a fronte dei 50.000 entrati in cinque anni legalmente, rispettando le quote del Libro bianco. Delle navi clandestine cinque colarono a picco, con 2.800 annegati

Già negli anni precedenti, tra il 1933 e il 1939, peraltro circa 25mila persone erano entrate irregolarmente, perlopiù a bordo di battelli. Risale inoltre a quel periodo, nel maggio del 1942, l’incontro tenutosi all’hotel Biltmore di New York, da dove scaturì un programma d’«emergenza» nel quale si chiedeva che la Palestina fosse trasformata in un «Commonwealth ebraico, integrato nelle strutture del nuovo mondo democratico» che – questo era l’auspicio – sarebbe sorto dalle ceneri della guerra. In poche frasi Ben Gurion affermava la priorità di uno stato per gli ebrei, il quale doveva essere parte integrante dell’Occidente, all’interno però di un processo storico che richiedeva la cooperazione con gli arabi. Quindi, a ben vedere, la divisione della Palestina occidentale con questi ultimi. Un segno di concretezza politica ma anche di fragilità operativa, nella misura in cui rivelava il senso di claustrofobico isolamento.

Biltmore nasceva già vecchia, risultando impraticabile alla totalità degli ebrei europei. Nella Palestina mandataria le notizie sui massacri in corso in Europa arrivavano con una certa continuità, venendo riportati dalla stampa, ma l’opinione pubblica locale fino all’autunno del 1942 rimase concentrata sui propri destini. Solo la sconfitta delle forze dell’Asse in Nord Africa permise di tirare il fiato e di volgere lo sguardo verso altri orizzonti. Nel tardo novembre del 1942 la comunità ebraica della Palestina iniziò a realizzare che quanto si stava consumando non erano solo violenze e persecuzioni ma una politica di sistematica eliminazione degli ebrei.

Di fatto, l’Yishuv manifestò come poteva la sua protesta (risale alla fine di quell’anno la proclamazione di una settimana di lutto collettivo) ma maturò anche il timore che, finita la guerra, nulla sarebbe rimasto dell’ebraismo europeo. In ciò si legavano e si esprimevano diffusi sentimenti di impotenza ai quali non era estranea l’idea che riguardo ai profughi, a parte rari casi, non ci fosse più nulla da fare. Per tutto il 1943 fu questo il pensiero dominante, che vincolò la tradizionale linea d’azione sionista – altrimenti assai attiva – ad una sorta di stallo nell’iniziativa. Il mutamento avvenne quando, nel tardo autunno, si seppe che in quelle comunità ebraiche del centro e del sud d’Europa che ancora non erano state del tutto decimate dovevano essere sopravvissuti non meno di un milione di ebrei. Al di là delle ovvie motivazioni di ordine umanitario Ben Gurion aggiunse di suo alcune considerazioni di natura politica, sulla rilevanza che gli scampati avrebbero potuto avere per le sorti dell’Yishuv, soprattutto nel quadro postbellico. La questione dei profughi si riapriva, quindi, e con essa anche quella del destino degli ebrei europei. Tuttavia, era evidente che «la possibilità di svolgere un’azione indipendente restò limitata, e lo Yishuv fu costretto ad agire in un contesto dominato dagli Alleati» (Gelber).

Più che altro quel che mutò fu la disposizione di spirito degli ebrei sionisti nei confronti dei correligionari europei e, in seguito, anche di quelli mediorientali. Se fino alla guerra i primi necessitavano della Diaspora per vedere realizzati i propri obiettivi ora i ruoli andavano invertendosi, diventando l’Yishuv il garante della loro sicurezza. Ma si trattava di un’ispirazione di principio, più che di una linea politica. La comunità ebraica palestinese non aveva all’epoca, né ne avrebbe avute dopo, almeno per diverso tempo, risorse proprie per dare corso ad una politica dell’immigrazione che riuscisse nel medesimo tempo a scavalcare i contingentamenti britannici e la follia omicida tedesca.

Per la leadership strettasi intorno a Ben Gurion l’unico obiettivo fattibile, oltre a quello di cercare di sopravvivere, era l’accreditamento del movimento sionista come interlocutore politico degli alleati, in previsione degli equilibri postbellici. La riunione  del 1942 all’Hotel Biltmore, in New York, andava in tal senso e così fu anche successivamente. Così ha commentato lo storico Ilan Greilsammer: «il dibattito sul sionismo e la Shoah è restato sterile poiché mai è stata chiarita quale altra politica sionista avrebbe potuto salvare un più grande numero di ebrei in Europa. Tutti i “piani di salvataggio” che sono stati evocati non avevano nessuna possibilità di riuscire, se il movimento sionista non avesse avuto più mezzi a sua disposizione». Da questo punto di vista, i sionisti palestinesi, piccola minoranza, fecero quello che era in loro animo, collaborando con gli stessi inglesi. Il concorso militare fu proporzionato alle dimensioni  e alle capacità dell’Yishuv. Se di rigidità si deve parlare, quindi, non è sul piano operativo né morale ma senz’altro strutturale, dettata dal trovarsi tutti, indistintamente, tra le fauci del leone. Così ebbe a commentare David Ben Gurion, a suggello di un quinquennio terribile: «per secoli gli ebrei si sono chiesti nelle loro preghiere: ‘quando tornerà ad esserci per il nostro popolo uno Stato?’ ma nessuno avrebbe mai pensato di porre la terribile domanda: ‘esisterà ancora il nostro popolo quando nascerà quello Stato?’».

Se questo era lo scenario della guerra e dell’immediato dopoguerra, finito il periodo dell’immediatezza bellica e subentrato quello della costruzione dell’Indipendenza, alla cognizione fattuale della tragedia non si alternò da subito la sua capacità di metabolizzarla sul piano civile e politico. Ovvero, le urgenze legate alla nascita, alla sopravvivenza e al consolidamento del giovane Stato d’Israele ebbero la meglio su ogni altro ordine di considerazioni. L’assunzione di rilevanza della storia della Shoah nella formazione di una coscienza civica collettiva fu quindi un percorso lungo, incerto, per nulla prevedibile nei suoi risultati. Poiché aveva a che fare con la nozione di trauma, ossia la capacità di concepire, assimilare e rielaborare una tragedia altrimenti incommensurabile, al di fuori di qualsiasi capacità di razionalizzazione umana. Si trattò – quindi – di un percorso difficile, a tratti contraddittorio, costellato di chiari e di scuri, di identificazioni ma anche di omissioni (Saul Friedländer).

Peraltro, con la creazione di Israele, nel maggio del 1948, i profughi e i rifugiati ebrei che vagavano in Europa si trasferirono in massa nel nuovo Stato. Si stima che fino al 1953 ben 170mila sopravvissuti vi siano emigrati. Nel dicembre del 1945, intanto, il Presidente statunitense Harry Truman aveva emanato una direttiva che riduceva le restrizioni delle quote di immigrazione negli Stati Uniti per persone che erano state vittime del regime nazista. Grazie a quella disposizione, più di 41mila profughi si recarono negli Stati Uniti, dei quali 28mila circa erano ebrei. Nel 1948, il Congresso degli Stati Uniti passò il «Displaced Persons Act», con il quale, tra il 1° gennaio 1949 e il 31 dicembre 1952, vennero concessi 400mila visti di immigrazione ad altrettanti profughi e rifugiati, tra cui 68mila ebrei. Altri rifugiati ebrei che si trovavano in Europa emigrarono, con lo status di profughi, in Canada, Australia, Nuova Zelanda, Europa Occidentale, Messico, Sudamerica, e Sudafrica.

Circa il 65% dei sopravvissuti che a tutt’oggi vivono (o hanno vissuto nei decenni trascorsi) in Israele sono di origine europea. Di questi, il 36% è nato nell’ex Unione Sovietica, il 12% in Romania e il 6% in Polonia. I sopravvissuti originari del Nord Africa e dell’Iraq costituiscono il restante 35%, di cui il 16% è nato in Marocco e il 2% in Algeria, dove avevano subito le persecuzioni sotto il regime francese di Vichy. Il 10% sono invece originari dell’Iraq, scampati al «Farhud», il violentissimo pogrom contro le comunità locali che si scatenò nei primi giorni di giugno del 1941 (subito dopo il collasso del governo golpista, nazionalista, antiliberale e filo-nazista di Rashid Ali, sostenuto dal Muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husseini), con l’uccisione di centinaia ebrei, il ferimento di migliaia di indifesi e il saccheggio di decine di migliaia di attività commerciali e di abitazioni. Entro il 1951 era arrivato nel Paese il 38% degli scampati alla Shoah, mentre nell’arco di tempo compreso tra il 1952 e il 1989 ne arrivò un altro 29%. Un ulteriore contingente si aggiunse infine negli anni Novanta, dopo la fine dell’Unione Sovietica e la liberalizzazione delle frontiere. Dei sopravvissuti delle comunità ebraiche tedesche e austriache, il 65% giunse in Israele prima del 1948. La maggior parte dei sopravvissuti nati in Polonia, Bulgaria, Ungheria, Iraq e Libia arrivarono invece durante la prima grande ondata immigratoria, tra il 1948 e il 1951, mentre la componente più cospicua dei sopravvissuti o perseguitati nati in Tunisia e Marocco immigrò in Israele negli anni Cinquanta e Sessanta.

Se le cifre della storia si esprimono da sé, ha più che mai allora un senso, in questo caso, parlare di una vera e propria «scoperta», poiché fin da subito fu una Nazione giovane, e fragile, che dovette confrontarsi con un pesantissimo segmento della recente cronaca ebraica che andava progressivamente riaffiorando, nel corso del tempo, così come un iceberg che riemerge poco a poco. La memoria dello sterminio (prima ancora che la sua storia, intesa come descrizione distaccata e distanziata degli eventi) è oggi patrimonio integrale del Paese, ovvero delle generazioni che lo hanno costruito e lo vivono. Dal costante richiamarsi, in un modo o nell’altro, ad aspetti della deportazione, anche nel linguaggio quotidiano, si comprende quanto sia innervata nel corpo della Nazione la cognizione del peso di «quel»passato, come quindi, la sua capacità di condizionarne il presente e di orientarne il futuro.

Proprio per questo, però, diventa difficile circoscriverne l’effettiva portata. Il problema di fondo è che, al netto del fatto storico dello sterminio, nella vita civile israeliana ci si deve confrontare con una costellazione infinita di frammenti, ricondotti solo nel tempo ad essere parte di una coscienza collettiva. Quanto questi abbiano contato nella costruzione dell’identità di Israele, quanto lo abbiano legittimato come risposta storica ad una tragedia comune, è materia di confronto e, a volte, di scontro. La vulgata dei «nuovi storici» ha ripetutamente ragionato su questi aspetti, pervenendo in alcuni casi a pareri da molti non condivisi. Anche qui, però, più che per la rilevanza del giudizio di valore in sé, quel che importa è lo sforzo di ricognizione che, evidentemente, tanto più a distanza di molti anni da quei fatti, è ritenuto ineludibile.

L’imperativo ebraico «Zakhor» («ricorda!») si incontra pertanto con la formazione della coscienza di sé di una nuova Nazione. Si scopre così che vi sono più stagioni della memoria in Israele, tra di loro a volte un po’ dissonanti. L’ideale umano che ha accompagnato il sionismo, infatti, si rifà più ad una visione partecipativa che non vittimistica dell’essere ebrei. Tuttavia, l’assunzione nel pensiero collettivo della tragedia dello sterminio doveva fare i conti, soprattutto negli anni del consolidamento del Paese, con il bisogno di nutrire una considerazione di sé in sintonia con i principi che avevano ispirato tutto il progetto di costruzione della comunità israeliana. Se la Shoah era ben presente nel corpo della nazione, poiché molti di quanti vi erano arrivati, dal 1945, erano dei sopravvissuti, la questione che si poneva era il modo in cui dovesse diventare patrimonio nella coscienza nazionale, assumendo una funzione di pedagogia civile, ossia di formazione soprattutto dei più giovani.

Vi sono alcuni passaggi, quindi, che hanno caratterizzato tale percorso. Già negli anni Quaranta, prima ancora che fosse finita la guerra, c’era chi come Mordechai Shenhavi, tra i fondatori dell’Hashomer Hatzair, andava ipotizzando la creazione di un memoriale per le vittime delle violenze naziste. Nel 1942, quando avanzò al Keren Kayemet LeIsrael (il Fondo nazionale ebraico, uno degli enti per lo sviluppo dell’insediamento nella terra d’Israele) l’idea dell’istituzione di un parco nazionale, nessuno aveva ancora bene in mente quali fossero le dimensioni della tragedia in corso. La vicenda delle persecuzioni, nella percezione condivisa dai più, non si era ancora tradotta nei termini di uno sterminio epocale. La si riconduceva alla lotta in corso contro la Germania nazista. La commemorazione delle vittime ebree doveva quindi riallacciarsi al contributo ebraico alla guerra e, più in generale, alla celebrazione dell’«eroismo» semita nel corso dei secoli.
La decisione formale di dare corso alla creazione di un ente per la memoria della Shoah risale ad alcuni anni dopo, nel 1947, ma si tradurrà in gesti concreti solo successivamente. La Knesseth nell’aprile del 1951 aveva infatti scelto come giorno commemorativo il 27 del mese ebraico di Nissan, definito per legge «Yom HaShoah Vemered Haghettaot» («Giorno della Catastrofe e della rivolta dei ghetti»). La scelta precisa, fatta in quella sede, voleva legare strettamente l’aspetto passivo della tragedia – la morte nelle camere a gas di sei milioni di ebrei – a quello attivo e militante, costituito dalla ribellione degli ebrei imprigionati nei ghetti eretti dai nazisti nell’Europa orientale. Non a caso la data coincideva con quella della sollevazione ebraica nel ghetto di Varsavia, per l’appunto nel mese di aprile del 1943. In quegli anni si discusse anche se concedere la cittadinanza israeliana a tutte le vittime della Shoah, questione sollevata durante il XXIII congresso sionista del 1951 ma poi cassata per via della impraticabilità giuridica e politica di tale scelta.

A seguito anche di ciò si optò quindi per dare corso all’effettiva realizzazione di un memoriale, inteso non solo come una entità di natura museale bensì in quanto struttura pedagogica e formativa, oltre che luogo di ricerca. Il 19 agosto 1953 veniva approvata dal Parlamento israeliano la legge che istituiva l’«Ente per il ricordo dei martiri e degli eroi», comunemente noto come Yad Vashem («Un nome», tratto da Isaia 56,5: «Io darò loro nella mia casa ed entro le mie mura un monumento e un nome [yad va-shem] … che non perirà»). L’anno successivo fu identificato nello «Har ha-Zikkaron» («Colle del ricordo») – a Gerusalemme, sul Monte Herzl e in vicinanza del cimitero nazionale militare – il luogo dove edificarlo. La prima pietra fu posta il 29 luglio 1954 mentre l’intera opera, nella sua prima ideazione (comprendente uffici amministrativi, biblioteca e archivio dell’Istituto), veniva completata non più tardi del 1957. Ancora una volta, come nell’ispirazione originaria del 1942, l’accostamento diretto tra vittime (civili ed incolpevoli) del crimine di massa e il sacrificio consapevole di coloro che si erano opposti armi alla mano ai loro assassini, serviva in ultima istanza a celebrare la funzione di Israele nel mondo. Ovvero l’immagine di sé, che la componente sionista aveva coltivato, vedendola realizzata nel giovane Stato. L’intera storia veniva così rubricata sotto il binomio di «martirio ed eroismo», offrendo della Shoah una chiave di lettura univoca, adatta alla pedagogia civile nazionale ma sul piano storiografico poco convincente. Non a caso sarebbe stata presto sottoposta a più di una rilettura critica.

Il discorso pubblico sulla Shoah in Israele segui da allora due assi privilegiati, tra di loro dialetticamente intrecciati: la cognizione dello sterminio come catastrofe dell’ebraismo e l’edificazione dello Stato ebraico come atto di redenzione. In realtà per tutti gli anni Cinquanta la vicenda dei deportati non ebbe una funzione a sé, ossia non fu storia che potesse avere uno statuto autonomo. Si inseriva semmai dentro una più ampia, e onnicomprensiva, logica del sacrificio. Laddove a quello consapevolmente offerto da chi combatté, perdendo la vita sui campi di battaglia contro gli eserciti arabi, si univa quello di coloro che, del tutto incolpevolmente e senza una qualche plausibile causa che non fosse l’abominio antisemita, furono travolti dall’onda lunga delle persecuzioni razziali prima e dello sterminio poi. In altre parole, era immediatamente stabilito un nesso di continuità tra quanti perirono in ragione della appartenenza “razziale” e coloro che persero la vita in qualità di membri delle truppe combattenti del nuovo Stato, nel nome di una comune matrice ebraica, rielaborata in chiave sionista, che viene a sua volta declinata in un’ottica militante. Il sabra, l’ebreo israeliano, si sommava dialetticamente al testimone-sopravvissuto dell’immane carneficina. Se il secondo serbava in sé gli elementi della consapevolezza di quel che si era consumato, il primo è colui che sta “un passo in avanti”, avendo anticipato e prevenuto, con la sua scelta di stare nella Terra dei Padri, le catastrofi che erano occorse agli altri, non solo risparmiandosele ma ponendo concretamente le premesse affinché non avessero modo di ripetersi. Israele si faceva quindi garante della vita di tutti gli ebrei nel mondo.
Su questa ambivalenza, dove all’immagine della vittima europea si contrapponeva quella del vincitore israeliano, si confermava l’assunto di principio del sionismo, quello dalla necessità storica di uno Stato per gli ebrei. Del pari alla definizione dei caratteri politici, Israele in quegli anni si dotò di una vera e proprio identità simbolica nella quale la Shoah occupa a tutt’oggi un posto per certi aspetti “rassicurante”, rappresentando nel medesimo tempo quel che di peggio si era consumato ma anche ciò che, in ragione della presenza dello Stato degli ebrei, non avrebbe più dovuto ripetersi. Peraltro, il fatto che degli ebrei fossero stati assassinati, confermava non solo la persistenza del crimine antisemita – e quindi la bontà dell’assunto sionista per cui non c’è riparo sicuro se non dentro una comunità politica generata dagli ebrei per gli ebrei medesimi – ma anche la debolezza delle comunità ebraiche diasporiche. Nel passato e nel presente. Che avevano subito senza avere strumenti, mezzi, risorse, capacità per contrapporsi. Israele, negli anni Cinquanta, si poneva come antitesi a questa condizione e come una pagina nuova, integralmente inedita, del percorso storico dell’ebraismo. Quella dell’emancipazione nazionale e del superamento della sudditanza alle circostanze date.

Tutti gli anni Cinquanta e Sessanta furono quindi contrassegnati da questo binomio tra eroismo e martirio, caduta e redenzione, sacrificio e ricostruzione, in quello che è stato definito uno «schema mitico e assillante» (Peter Reichel). Nello stesso calendario civile israeliano lo «Yom Azmauth», il giorno dell’Indipendenza, segue immediatamente alla ricorrenza nella quale si ricordano i soldati morti nelle guerre d’Israele, lo «Yom ha-Zikkaron», a volere sancire il maggior grado possibile di integrazione tra lutto e gioia. Il processo ad Adolf Eichmann in Gerusalemme, nei primi anni Sessanta, nel corso del quale l’Israele di Ben Gurion si confrontò con se stesso, assolse – in questo quadro –  ad una duplice finalità liturgica, al medesimo tempo di ordine emotivo e di natura pedagogica. Attraverso la sua resa mediatica, si trasformò infatti in un evento collettivo, al quale un po’ tutti parteciparono, seguendone l’evoluzione e identificandosi, di volta in volta, nelle situazioni di cui si dava pubblico resoconto. Se il fuoco dell’attenzione sembrava concentrato sul criminale in giudizio, in realtà era tutta la società israeliana che si guardava allo specchio, misurando vicinanza e distanza dallo sterminio come momento di massima fragilità dell’ebraismo diasporico. A modo suo era la resa dei conti anche con quelle che venivano percepite come le debolezze del passato, a fronte della forza del presente. Ci si rivolgeva ai «figli d’Israele», dicendo loro che le fragilità dei genitori erano state superate. E che ciò autorizzava a fare passi in avanti, ad assumere un profilo non solo più determinato (l’autodifesa) ma anche decisamente aggressivo. Come si sarebbe verificato con il tornante successivo alla guerra dei Sei giorni, quando il rapporto, inevitabilmente conflittuale, con le popolazioni arabe dei territori conquistati avrebbe riproposto il problema del rapporto tra il ruolo di vittima e di persecutore nell’autocoscienza nazionale.

Peraltro l’ascesa delle destra, negli anni Settanta, sarà contrassegnata da una riattualizzazione dei sentimenti di angoscia per un «passato che non passa» (Adi Ofir). La leadership del partito di maggioranza relativa, il Likud, era titolare di un pensiero molto netto al riguardo, rapportato al conflitto con gli arabi, laddove si temeva che la vittoria di questi, nell’ipotesi di un conflitto totale con Israele, avrebbe riproposto lo sterminio nei termini che già si erano conosciuti. Dal confronto, secco, tra queste idee e quelle di chi invece propendeva per un rapporto più sobrio e meno enfatico con la propria storia, è derivata una dialettica culturale e morale che è lungi dall’essersi consumata. La politica, peraltro, ne è pienamente attraversata. La Shoah riveste quindi nel Paese un valore che va ben al di là del fatto storico in sé, trasponendosi sul piano simbolico della vita quotidiana. In ciò, l’eccezionalità dello sterminio degli ebrei si ricollega, in qualche modo, con l’eccezionalità dello Stato d’Israele. Pur trattandosi di due eventi storicamente distinti, non derivando il secondo dal primo, e non intrattenendo un rapporto di reciprocità, tuttavia costituiscono nella storia della modernità ebraica le due fratture epocali su cui le vicende nazionali e comunitarie si sono completamente ridefinite. Se per capire Israele bisogna comprendere la Shoah, non di meno, oramai, per capire la rilevanza della Shoah necessita rivolgersi verso Israele. Quanto meno perché Israele «è un fenomeno morale e un fenomeno di coscienza […] nel fatto di dare agli ebrei coscienza di se stessi. Offre loro una coscienza acuta della loro contraddizioni, e in questo senso non è soltanto la loro coscienza, ma la loro cattiva coscienza […]» (Vladimir Jankélévitch).

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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