Israele
Paola Liani: l’architettura del futuro è tra Venezia e Tel Aviv

Intervista a Paola Liani, co – founder dello studio Paritzki&Liani, realtà tra le più creative e stimolanti della città bianca

Oltre trent’anni di carriera, cominciata a Venezia, che l’ ha portata a lavorare in tutto il mondo, tra Londra, Ischia e Tel Aviv. In questa intervista, oltre a raccontarci il suo percorso artistico come architetto, Paola Liani, co – founder dello studio Paritzki&Liani assieme a Itai Paritzki, ci spiega perché alla fine ha scelto Israele come luogo in cui esplorare il potenziale che l’architettura può offrire, in questo luogo così unico al mondo, punto di incontro tra passato e futuro.

Come è cominciato il tuo percorso artistico?
A otto anni con una macchina fotografica, con cui ho iniziato a scattare foto in bianco e nero ai famigliari accostati a giocattoli e oggetti a me cari. Un primo modo, inconscio, di fare composizione, che poi si è sviluppato negli anni con la composizione vera e propria degli spazi. Fu poi a 12 anni, quando vivevo ancora in Friuli, che, nelle colline moreniche, notando un fiume lasciato in condizioni terribili, misi assieme un gruppo di ragazzi per andare a pulirlo. Li cominciai a documentare questi luoghi di campagna magici e a comprendere il grande potenziale dell’architettura come protezione e salvaguardia dell’ambiente e degli spazi. È stato proprio l’amore della fotografia e della misura degli spazi che mi ha portato a decidere di iscrivermi alla Facoltà di Architettura, in particolare allo IUAV di Venezia, città che mi era sempre stata cara, fin dalle vacanze da ragazza con i miei genitori, in giro per la Laguna e le sue isole, gioielli ancora incontaminati come l’isola di San Giorgio, in cui ho scoperto per la prima volta il vigore delle linee e della luce del grande maestro Andrea Palladio.

Quanto Venezia ha influenzato il tuo percorso artistico, sia come città che come scuola di architettura?
Enormemente. Erano gli anni di grandi maestri come Gino Valle, Peter Eisenman, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co e Marco De Michelis, solo per citarne alcuni. Allo IUAV ho avuto la possibilità di seguire tutti i vari percorsi sia teorici che progettuali. Ma da Venezia, soprattutto, ho imparato a studiare e a raccogliere, testi fondamentali, sia moderni che antichi, che tuttora colleziono. E, soprattutto, a catturare la luce, su cui è stata costruita Venezia, dall’architettura antica a quella contemporanea, che mi ha influenzato fino ad oggi nel mio modo di comporre e pianificare, oltre agli anni di dottorato e di insegnamento a Londra, presso la Bartlett (UCL).

Cosa ti ha lasciato Londra più di tutto, sia come città che come scuola di architettura?
Se a Venezia ho sviluppato il rapporto stretto tra architettura e storia, attraverso il legame tra l’accademia e la sua città e lo studio delle regole ben strutturate, dovute all’appartenenza a questa scuola, io allo UCL – e Itai all’Architectural Association – ci siamo trovati all’estremo opposto, perché lo stimolo principale che ci hanno dato è stato quello di “inventare”. O meglio ancora, dimenticare tutto, per poi ricostruire. Londra è sempre stata radicale, perché offre la possibilità, immensa, di immaginare profondamente: “to shake up conventional notions of cities”, concetto su cui lavora da sempre Peter Cook, per me maestro di scuola e di vita.

FOTO PAVEL WOLBERG

Alla fine, cosa ti ha portato a Tel Aviv e cosa ti ha dato questa città?
Lo studio Paritzki&Liani è nato a Venezia, allo IUAV, dove io e Itai Paritzki ci siamo conosciuti. Da lì ci siamo trasferiti a Londra, e a Tel Aviv abbiamo deciso di collocare l’headquarter dello studio – che oggi ha sede anche a Ischia – per via della forza dirompente e imprevedibile della Città Bianca. Qui abbiamo sentito che c’era la possibilità di riconfigurare una nuova iconografia, in un luogo di confine fra culture diverse. Tel Aviv, è la città delle improvvisazioni, dove tutto accade in modo spontaneo e virtuoso come una jam session, dove tutto è spesso inaspettato e, per questo, stimola nella produzione, continua. Sarà anche il fatto che qui si incrociano culture di tutto il mondo e che si è sempre sospesi in un paesaggio fragile, tra due estremi: quello del conflitto e del pericolo e, all’opposto – e come conseguenza – quello dell’amore per la vita e quindi la necessità di fare, accelerare, creare, concludere.

Quali altri luoghi sono stati fonte di ispirazione nel corso della tua carriera?
Sicuramente il Giappone e Tokyo, dove, all’interno di una delle più grandi metropoli del mondo, esistono delle nicchie ovattate – dai templi ai parchi, dai musei alle sale da tè – in cui si entra in una dimensione del tempo che permette di passare costantemente dal passato al futuro e viceversa, anche quando ci si trova nel quartiere di Shibuya, circondati da milioni di persone, ma non suona mai un telefono e, al contrario, si è circondati da un’eleganza dei suoni. Perché in Giappone la bellezza e il senso estetico sono ovunque, non solo nelle architetture ma anche nelle composizioni di fiori. Ogni cosa è collocata al posto giusto, dalla vetrina di un negozio del paese più sperduto sulle alpi giapponesi, alle collezioni dei musei: c’è sempre un’armonia sia cromatica che spaziale, anche per via del senso delle stagioni, del tempo, delle ore. La grazia è ovunque.

Pur avendo viaggiato e lavorato in tutto il mondo, cosa alla fine ti ha fatto scegliere di vivere e lavorare a Tel Aviv?
Già nel 2012 il Wall Street Journal aveva definito Tel Aviv come la seconda città più innovativa al mondo. Non si tratta solo di Startup Nation, ma anche degli israeliani stessi. Qui lavoriamo soprattutto con privati che, grazie alla loro attitudine dinamica, a differenza di altri clienti internazionali, hanno il coraggio di darci carta bianca e permetterci di ragionare su tematiche abitative di più ampio respiro. Spesso sono collezionisti d’arte, per cui, oltre allo spazio abitativo, ci permettono di create a tutto tondo, pensando anche a dove collocare i pezzi delle loro collezioni. In questo modo ogni progetto diventa un progetto unico e permette di esaltare lo spazio attraverso linguaggi innovativi, senza preconcetti. Questo grazie anche al fatto che Tel Aviv è una città libera a 360 gradi, anche esteticamente. Il che permette ogni volta di sperimentare spazi e materiali nuovi – dalla pietra di Gerusalemme, così antica e vigorosa, a materiali leggeri e innovativi come lo u-glass – e di interpretarli ogni volta in maniera diversa.

Per concludere, esiste una città ideale?
Esiste la città modello, che per me è Venezia, non solo per la sua bellezza ma perché è la città del futuro, a partire dal fatto che è percorribile interamente a piedi, e questo è un modello che dovrebbe essere adottato ovunque. Pur essendo immersa nel passato, Venezia si è già adeguata alle esigenze ambientali contemporanee. È rimasta antica ma si è adattata al futuro. In questo senso anche Tel Aviv si sta lentamente orientando su questo modello, grazie soprattutto alla scelta delle piste ciclabili e negli anni, spero, attraverso un’attenta pianificazione territoriale che preveda l’inserimento di parchi in modo diffuso, e di nicchie verdi nei luoghi interstiziali della città. Come era nello spirito originale della casa Bauhaus, che tanto ha segnato il destino e il panorama della Città Bianca, quando si costruivano i giardini anche sui tetti, rendendo in questo modo Tel Aviv una città molto intima, proprio come Venezia. Oggi si dovrebbe solo imparare a rileggere il proprio passato, quello dei grandi architetti del Bauhaus, come Erich Mendelsohn che nel 1934, a Rehovot, costruì la casa di Chaim Weizmann, primo Presidente di Israele. Un gioiello abitativo nel Mediterraneo, fatto di forme essenziali ed elementi puri, senza alcuna delimitazione visiva dello spazio geografico circostante. Gli architetti della sua scuola hanno lasciato in questo luogo un segno indelebile che va riletto e fatto proprio, per portare Tel Aviv ad essere il percorso e la voce della nuova Kultur post 2020. Tutto è in mano alle nuove generazioni, che hanno già sviluppato una grande sensibilità nei confronti dell’ambiente e del territorio. Io stessa imparo ogni giorno da loro, anche attraverso anche gli occhi di mia figlia, Zoe, che è la terra affettiva più importante. Sono i figli che ci insegnano a vivere e sono loro che stanno costruendo Tel Aviv. Un luogo, non solo mentale, in grado di superare barriere culturali e politiche, come è stato agli inizi della sua fondazione, come l’aveva immaginata Theodor Herzl, grande visionario (non solo politico).

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


1 Commento:

  1. Bravissima Paoletta! Una bella intervista,tranne il solito errore alla telaviv! Mendelsohn non c’entra nulla col Bauhaus!! Non c’è mai stato


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