Cultura
“Eredi della Shoah”, i racconti della terza generazione in un documentario

Un documentario in due episodi per le storie di sei nipoti di sopravvissuti. Intervista all’autore

Il padre di Roly Kornblit era giunto in Italia dalla Polonia negli anni Trenta, negli anni Cinquanta era poi andato a vivere in Israele. Quanto era accaduto in mezzo sembrava però inghiottito dall’oscurità. Questo almeno era quanto viveva il figlio, che alle sue domande su questa zona d’ombra si sentiva rispondere che “il passato era passato”.

Oggi Roly, che è nato a Tel Aviv ma vive felicemente in Italia da oltre trent’anni, ha deciso di raccontare non solo la propria esperienza, ma anche quella di altre sei persone. Federica Astrologo, Elio Limentani, Shulim Vogelmann, Sarah Rugiadi, Simone Santoro e Lia Tagliacozzo sono tutti nipoti di ex deportati che portano ancora in sé la responsabilità di una storia che appartiene non solo a loro, ma a tutta l’umanità. Sono gli Eredi della Shoah che danno il titolo al documentario prodotto da Apnea Film che Sky Documentaries propone venerdì 27 alle 21.15 in occasione del Giorno della Memoria e poi in streaming e on demand su NOW. Abbiamo chiesto a Roly di parlarci del suo lavoro, due episodi da lui ideati e scritti insieme a Gianfranco Scancarello e diretti da Francesco Fei.

Da dove arriva l’idea di Eredi della Shoah?
Nasce da me, dalla mia storia personale di figlio di un sopravvissuto e nipote di vittime della Shoah. Mio padre durante la guerra viveva a Modena, vi era giunto dalla Polonia per studiare Medicina. Qui i fascisti lo avevano arrestato in quanto straniero e quindi considerato nemico del paese. Lo avevano messo al confino in una caserma in un paese dell’Abruzzo, poi sotto i nazisti era passato in un campo a Giulianova, nella stessa regione, e da qui avrebbe dovuto andare in Germania, in un campo di sterminio. Se non ci è mai arrivato è per merito di un soldato tedesco, un giovane che gli era diventato amico e che sapendo che il trasferimento era imminente gli aveva organizzato la fuga. Un colpo di pistola volutamente fuori bersaglio per non insospettire i nazisti e poi via nei boschi dove c’erano i partigiani ad accoglierlo. Finita la guerra, papà aveva vissuto qualche anno a Roma, che gli sarebbe rimasta sempre nel cuore, prima di raggiungere il suo unico fratello sopravvissuto che già viveva in Israele. Qui avrebbe incontrato la ragazza che sarebbe poi diventata mia madre.

Del passato però il papà non voleva parlare…
Non molto. Quello che so me l’ha raccontato la mamma, lui ripeteva che il passato era appunto passato e che persino la sua giovinezza in Polonia era qualcosa di ormai troppo lontano per essere riesumato. La Shoah però non ha mai abbandonato me, e il mio interesse per quella tragedia ha segnato le mie ricerche e i miei interessi. Nel tempo ha preso forma il desiderio di parlare non tanto dei fatti tragici della storia, pure imprescindibili ma oggettivi, ma di quanto di essi vive ancora nel presente, nelle persone. Da qui l’idea di incontrare chi come me aveva avuto in famiglia testimoni diretti della Shoah. Volevo capire che cosa rimanesse ancora in loro di quegli eventi e in che modo avessero segnato la loro esistenza.

Come ha lavorato a questo progetto?
Cercando sei rappresentanti italiani della cosiddetta terza generazione, sei persone diverse tra loro per esperienza ed età ma accomunate dall’essere nipoti di un sopravvissuto della Shoah. Volevo che avessero conosciuto personalmente il nonno o la nonna e che vi avessero instaurato un rapporto del quale mi interessava individuare l’eredità. Il documentario, anzi il docufilm, non vuole insegnare niente, solo raccontare in modo semplice una realtà ancora poco esplorata. Rivolto a un pubblico soprattutto di non ebrei, è dedicato alle conseguenze della tragedia, non all’Olocausto in sé, ma a quello che ha lasciato in chi è venuto dopo. Penso che sia la prima volta che si affronta l’argomento da questa prospettiva, almeno in Italia. Da una parte c’è la Storia, quella scritta sui libri, dall’altra la memoria, che è qualcosa di personale, che vive nell’essere umano.

Ha notato delle differenze nelle risposte?
Per quanto abbia poi scelto di focalizzare ciascun intervento su temi diversi, ho fatto le interviste senza una scaletta precisa, non mi ero preparato delle domande scritte. Ci tenevo a creare un dialogo, volevo che fosse il racconto a condurci. Mi interessava capire se e come la memoria fosse passata alle terze generazioni. Che cosa facessero i nipoti per ricordare e perché fosse importante continuare a parlarne. Ho imparato tantissime cose da queste conversazioni, ci sono frasi pronunciate dai sei protagonisti che fanno ormai parte di me e che oggi mi ritrovo a citare nella quotidianità. Sono lezioni di vita. Un bagaglio sentimentale e culturale. Tra gli spunti di riflessione, le parole di Edith Bruck che in una intervista per un programma Rai si era detta preoccupata perché i testimoni stanno scomparendo: chi porterà avanti la Shoah dentro di noi?

C’è qualcosa che accomuna le esperienze dei sei nipoti?
Naturalmente, ognuno di loro mi ha raccontato delle storie personalissime e quindi diverse. Inoltre, in sede di taglio e montaggio ho scelto di differenziare gli argomenti trattati nel corso degli incontri, che nel film prendono una decina di minuti ma nella realtà sono durati ore. Tutti però hanno mostrato lo stesso orgoglio nell’essere il nipote di un sopravvissuto. In tutti c’è la consapevolezza che, nonostante gli orrori vissuti, i loro nonni avevano saputo rifarsi una vita, guardando all’esistenza comunque con speranza. Al di là del dolore, ineliminabile, in ciascuno di loro non c’era rancore. Nessuno ha trasmesso rabbia ai propri famigliari, ma un approccio positivo alla vita. Il nonno di Elio era considerato ad esempio una guida per l’intera famiglia, un punto di riferimento fondamentale, così come la nonna di Lia, che aveva perso tutto, non aveva però mai perso il sorriso.

Che cosa ha imparato da questo lavoro?
Confrontandomi con i miei sei protagonisti e con quanto i loro nonni hanno trasmesso loro ho capito qualcosa di più anche di me stesso e dell’esperienza di mio padre. Tra i temi emersi in ogni conversazione c’è quello del silenzio, della ritrosia nel raccontare la Shoah da parte dei suoi sopravvissuti. Delle zone buie che io conosco bene e che grazie alla loro esperienza e ai loro racconti ora capisco meglio. L’altro elemento imprescindibile, e che è poi l’unica domanda che ricorre in tutte le interviste, è che cosa significhi oggi la Shoah e che cosa sia la memoria.

Ha trovato una risposta?
Sì, ho provato a formularne una, ma preferirei che la scoprisse vedendo il documentario…

Eredi della Shoah andrà in onda su Sky Documentaries il 27 gennaio alle 21.15

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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