Cultura
Il processo Slánský e l’antisemitismo sovietico

Nel 1952 Rudolf Slánský, segretario generale del Partito Comunista della Cecoslovacchia, e altri 13 esponenti ebrei, furono accusati di avere organizzato una cospirazione contro il paese. Storia del pregiudizio antiebraico nel secondo dopoguerra

Il secondo dopoguerra europeo non fu in alcun modo contraddistinto da un declino dell’antisemitismo. Semmai si aprì una nuova pagina, dopo le tragiche ricadute del delirio criminale nazifascista. I paesi che erano stati pesantemente interessati dall’occupazione tedesca, soprattutto ad oriente, dovevano ora confrontarsi non solo con la sua pesantissima eredità ma anche con i nodi irrisolti di un pregiudizio antiebraico, di per sé antecedente allo sterminio e, in immediato riflesso, con gli effetti della plumbea cappa che andava formandosi in ragione della loro radicale sovietizzazione. La tragedia della Shoah, infatti, non aveva in alcun modo contribuito a superare quell’avversione che una parte delle popolazioni locali – nell’Unione Sovietica così come nei paesi dell’Est che dal 1944 caddero sotto la sfera di influenza russa – da più tempo nutrivano nei confronti della presenza ebraica. L’occupazione nazista aveva semmai concorso a rafforzarne una sorta di falsa legittimità, ora rifiutata formalmente dalle nuove autorità social-comuniste ma non per questo sedata nelle società nazionali. Il ritorno dei sopravvissuti e degli scampati allo sterminio, così come di una parte delle popolazioni che erano riuscite a fuggire davanti all’avanzata tedesca, provocò quindi reazioni ostili. Le proprietà ebraiche erano state espropriate, finendo nelle mani degli occupanti così come di non pochi non ebrei che si erano dedicati al peggiore collaborazionismo. Questi ultimi temevano ora di essere riconosciuti e denunciati. Peraltro, le comunità ebraiche dell’Europa orientale erano state quasi integralmente annientate. Se non si poteva più parlare di una vita ebraica, in quanto ne mancavano i presupposti elementari, del pari, le persone che tornavano ai loro luoghi di origine trovavano il vuoto: famiglie distrutte, beni rubati, identità cancellate, astio e odio persistenti. Il fenomeno dei pogrom postbellici, a partire dalla Polonia, connotò dolorosamente questo processo di rifiuto, che arrivò quindi alla violenza fisica e all’omicidio.

L’antisemitismo di Stato praticato dalle autorità sovietiche, dopo una prima stagione legata alla normalizzazione interna ai paesi satellizzati, fatto che implicava la neutralizzazione del pallido pluralismo culturale concesso durante la guerra, si articolò come componente della lotta contro i nazionalismi non russi e l’indipendenza nazionale. Tutti i paesi dell’Europa orientale, d’oltrecortina, ne furono coinvolti. L’equazione ideologica dominante era sempre la medesima, ovvero quella che istituiva, senza soluzione di continuità, un rapporto diretto ed immediato tra patriottismo, russo-centrismo, centralismo politico e comunismo. Quand’anche la popolazione autoctona non fosse russa, come nella maggioranza dei casi per ciò che concerne l’Europa dell’Est, doveva tuttavia assimilare il precetto per il quale i sovietici erano i «liberatori» dal giogo nazifascista e, in omaggio ai nuovi equilibri, la deferenza nei confronti del centro moscovita doveva accompagnarsi ad un nuovo patriottismo nazionale che identificava nell’«internazionalismo proletario», di matrice comunista, il collante tra identità diverse. Semmai soppiantandole il più velocemente possibile.

Il riferimento all’elemento comune, la fedeltà verso Mosca, nume tutelare degli interessi delle classi lavoratrici in tutto il mondo, era ovviamente non di natura storica ma politico-ideologica. Si trattava di fare aderire le culture nazionali ai motivi dottrinari del socialismo sovietico. In questo clima, le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa o nulla adesione ai motivi della «grande patria socialista», dedicandosi semmai all’anacronistica difesa del proprio particolarismo identitario, nonché la critica di apoliticità, ossia l’essere volutamente estranei alla milizia per la causa del «proletariato mondiale», furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei in generale. In quest’ottica, la lotta al «cosmopolitismo» prese ben presto vigore, a partire dal 1946. Non solo in Unione Sovietica. Si trattava per più aspetti di un atteggiamento paradossale, poiché sotto questa etichetta si denunciava la persistenza dell’interesse e dell’identificazione degli stessi ebrei con l’ebraismo. Che veniva fortemente politicizzato, divenendo una sorta di stigma che indicava l’appartenenza ad un’eterodossia non compatibile con la dogmatica dei nuovi regimi.

La reviviscenza dell’antisemitismo si inscriveva peraltro nei processi di satellizzazione ed omologazione di quei paesi dell’Europa dell’Est che erano entrati a fare parte del blocco orientale. Se il verbo moscovita professava l’anticapitalismo, l’identificazione tra «intellettualità giudaica» e borghesia – quest’ultima additata come classe sociale che doveva scomparire – andò consolidandosi molto velocemente. L’immagine stereotipata degli ebrei come gruppo non solo di oziosi bensì di cavillosi antinazionalisti (laddove l’equazione vigente era quella tra nazione e socialismo e, quindi, l’immediata interconnessione con l’internazionalismo), veniva infatti di nuovo accostata a quella dei borghesi, intesi come ceto parassitario. Si trattava dell’alternarsi di motivi al medesimo tempo estremamente sottili, che incrociavano e vellicavano il vecchio antigiudaismo popolare, a vere e proprie campagne di stampa che, senza citare l’ebraismo in quanto tale, tuttavia recuperavano a beneficio del proprio messaggio i cliché consolidati rispetto alle identità di gruppo.
In Urss, nel corso del 1948, la cultura yiddish sovietica fu praticamente disintegrata: le testate e i luoghi di incontro vennero chiusi; gli esponenti di maggiore spicco arrestati, inviati nei Gulag oppure assassinati; l’ossessione per il «progetto Crimea», la delirante accusa di volere fondare uno Stato sionista indipendente dall’Unione Sovietica ma legato agli Stati Uniti, fu fomentata e corredata dal diffuso sospetto che i “congiurati” stessero preparando una sollevazione armata. L’obiettivo era quello di arrivare ad un grande processo collettivo, che avrebbe indicato all’attenzione pubblica le responsabilità dei «traditori del socialismo». Nei fatti non fu così – le vittime vennero silenziosamente eliminate – ma le velenose polemiche contro lo «sciovinismo», il «nazionalismo», il «deviazionismo» divennero di nuovo mefitica moneta corrente nella vita di tutti i giorni.
Nel 1949, infine, i tempi per un’infelice stagione antisemita era divenuti maturi. Già nei primi mesi di quell’anno, la stampa dei partiti comunisti dell’Europa orientale, e quella di informazione, iniziarono ad adottare e a diffondere strali contro i «gruppi antipatriottici». Non si trattava più delle polemiche, e della conseguente interdizione, contro singole personalità bensì della denuncia dell’esistenza di veri e propri consorzi di interesse anticomunista, ben inseriti nelle collettività nazionali. Gli attacchi, che iniziarono ad esercitarsi anche contro ciò che veniva esotericamente definita come «tribù», avevano ad oggetto, nella grande maggioranza dei casi, esponenti dell’ebraismo. Dall’informazione quotidiana e periodica si passò, in una crescente enfatizzazione, a tutti i mezzi di comunicazione, alle scuole e alle università, usando registri alternati, tra il serio e il sarcastico, l’accademico e l’umoristico, l’analitico e il grottesco. Si evitava ancora una volta di parlare di ebrei ed ebraismo in maniera diretta, ricorrendo invece di continuo ad allusioni ed insinuazioni. A rafforzare i concetti, evitando che il pubblico cadesse in equivoco, subentrava poi l’enfasi sui nomi e sui patronimici ebraici.

La calunniosità di regime si incontrava con l’antisemitismo di grana grossa, quello presente nella popolazione, particolarmente sensibile al richiamo patriottico quand’esso veniva ripetutamente fatto coincidere con l’identità sovietica del «socialismo», a sua volta espressione del «cuore slavo». Un solido argomento era quello che lasciava intendere che, dinanzi ai giganteschi problemi in cui si dibattevano le società dell’Europa orientale del dopoguerra (dalle abitazioni all’alimentazione, dal lavoro alla claudicante distribuzione di beni primari), gli ebrei fossero ingiustamente favoriti, soprattutto in ragione della loro capacità di manipolare lo stato delle cose a proprio favore. Il tutto veniva condito da un potente anti-intellettualismo, che raffigurava gli ebrei come improduttivi, dediti alla speculazione culturale fine a sé, individui anacronistici, legati ad un retaggio di superstizioni, mentre il resto della collettività era impegnato nel lavoro produttivo. Il nesso tra cosmopolitismo e nazionalismo, due condizioni altrimenti apparentemente contraddittorie se non antitetiche, era formulato nei termini del rapporto tra lo sradicamento anticomunista di una parte dell’intellettualità ebraica, abituata a “dialogare” con l’Occidente, e la chiusura particolarista di quegli ebrei che non avevano compreso il senso della «fratellanza socialista», preferendovi le logiche di gruppo, fortemente radicate sul territorio di residenza.

In un tale clima generale, che proseguì dopo il 1949, coinvolgendo le «democrazie popolari» – i regimi satellite instaurati dai sovietici nel secondo dopoguerra nell’Europa centrorientale – la manifestazione più eclatante del percorso di allineamento avvenne in Cecoslovacchia, con il «processo Slánský». La vicenda, di per sé, trattandosi di una tragica macchinazione, si svolse come una recita su un palcoscenico pubblico: ciò che avveniva, infatti, doveva ricadere immediatamente sulla società cecoslovacca, ancora sulla via di una compiuta sovietizzazione, indicando al medesimo tempo i responsabili di un presunto «tradimento» e la capacità onnisciente degli organismi comunisti di provvedere, in autonomia, ad una sorta di auto-epurazione.
Nel 1952 quattordici esponenti di vertice del Partito comunista della Cecoslovacchia – tra cui Rudolf Slánský già suo segretario generale – tutti ebrei, furono accusati di avere organizzato una cospirazione contro il loro paese. Non vi era alcun riscontro di ciò poiché nessun complotto era nei fatti in atto. Le “prove” erano state costruite ad arte mentre le confessioni vennero ottenute con la tortura. L’intero percorso giudiziario, dalle premesse fino alle sue tragiche conseguenze (con undici condannati a morte e tre all’ergastolo, questi ultimi liberati solo alla fine degli anni Cinquanta), fu il prodotto di una colossale e abominevole montatura. La Cecoslovacchia, dopo il colpo di stato del febbraio del 1948 che aveva portato al potere il Partito comunista, affrontava insieme, ai regimi omologhi, i cosiddetti «paesi fratelli», gli effetti della rottura tra la Jugoslavia di Tito e l’Urss di Stalin. Nel 1949, in una sorta di vero e proprio meccanismo di allineamento collettivo, anche la Germania orientale, la Romania, la Bulgaria e l’Ungheria avevano intrapreso processi di epurazione dei quadri ebraici dalle amministrazioni pubbliche e dai partiti di governo. In realtà, le dinamiche in corso avevano a che fare soprattutto con le lotte interne ai gruppi di interesse, in una logica di assestamento dei nuovi poteri ed in omaggio al centro moscovita.
In un tale quadro, richiamare le trame di una presunta «cospirazione sionista mondiale», come già era in qualche modo avvenuto in Ungheria con l’eliminazione del potente ministro degli Interni László Rajk nel 1949, in un precedente processo farsa, serviva nel suo insieme a dare sostanza al collegamento – del tutto fantasioso – tra «trotskismo», «titoismo» e «sionismo» (quest’ultimo inteso come «movimento reazionario», che avrebbe tradito le sue origini popolari). I fantasmi di una cospirazione internazionale davano maggiore credibilità alle accuse di tradimento che, a loro volta, coprivano i conflitti in atto tra le classi dirigenti comuniste. Le teorie complottiste, ispirate deliberatamente ai «Protocolli dei savi anziani di Sion», sostenevano che già dall’aprile del 1947 un «vertice sionista-imperialista», che vedeva coinvolti americani e israeliani, avesse dato corso ad un piano per sabotare l’indipendenza cecoslovacca. La Cecoslovacchia, peraltro, tra il 1947 e il 1948 aveva sostenuto l’impegno militare ebraico-sionista nel confronto con gli arabi, da cui era nato lo Stato d’Israele. Il tutto era avvenuto con l’assenso della leadership sovietica. Il fatto che la quasi totalità degli imputati fossero completamente estranei al sionismo, se non in radicale opposizione, non servì a nulla. Poiché un tale riferimento serviva a richiamarne l’origine ebraica, lasciando spazio alla ripetuta congettura, diffusa poi tra la popolazione, che l’inclinazione al tradimento degli interessi nazionali e «socialisti» derivasse proprio dalla loro appartenenza “etnica”.

La specificità della purga praghese del 1952 non può tuttavia essere attribuita solo alla forza e alla determinazione di Stalin. Più fattori intervennero, infatti. La Cecoslovacchia, di contro alle traiettorie compiute da altri Stati europei, fino alla sua occupazione da parte della Germania nel 1938-39 si era caratterizzata per essere un paese democratico, pluralista multi-confessionale e composto da un mosaico di minoranze. Le tensioni che negli anni Trenta erano derivate da un tale stato di cose avevano tuttavia contribuito ad indebolirne l’autonomia. La stessa presenza parlamentare dei comunisti, fino al 1938 partito legale con un discreto seguito elettorale, si inscriveva in questa condizione di fragile equilibrio, dove ai richiami alla fedeltà verso la Repubblica si accompagnavo le spinte centrifughe. L’impegno dei comunisti contro l’occupazione nazista ne accrebbe comunque la credibilità agli occhi di una parte della società nazionale. Dopo il 1945, la crescita elettorale del partito si accompagnò al processo di auto-accreditamento come formazione politica che più e meglio avrebbe potuto rappresentare il patriottismo nazionale, raffigurandosi come erede delle tradizioni unitarie del Paese.
La Cecoslovacchia aveva infatti preservato, durante anni travagliati, molte delle caratteristiche proprie, qualificando la lotta contro i nazisti anche e soprattutto come un impegno per la liberazione nazionale. Le stesso processo di omologazione alla sfera di interessi sovietica doveva quindi in qualche modo passare attraverso un tale filtro. Un elemento, quest’ultimo, che accresceva la diffidenza del gruppo dirigente staliniano, preoccupato dal fatto che l’allineamento di Praga potesse invece scontare resistenze e indisponibilità. Lo stesso Partito comunista cecoslovacco era osservato con perplessità, posto che in esso vi erano senza alcun dubbio molti dirigenti e militanti fedeli all’Unione Sovietica ma altri, invece, assai più tiepidi, poiché convinti che il «percorso verso il socialismo» dovesse essere ispirato da tratti peculiari, tali in quanto fortemente ancorati alla dimensione nazionale.
A fronte di questa disposizione delle cose si poneva il già collaudato circuito delle purghe interne e dei processi farsa che Stalin e i suoi uomini avevano reso parte stessa del modo in cui il comunismo sovietico consolidava se stesso. Ne era derivato per l’Urss, con la significativa eccezione del periodo bellico, un percorso di vigilanza paranoide, che aveva già portato, in alcuni casi, ad un fenomeno di auto-cannibalizzazione, con la distruzione non solo delle opposizioni interne ma anche di quella residua varietà che poteva ancora caratterizzare la stessa maggioranza bolscevizzata. Dopo il 1945, con l’estensione della sfera di dominio, un tale stato di cose si era proiettato anche sugli Stati satelliti dell’Est europeo. Le notevoli dimensioni del Partito comunista cecoslovacco, il suo radicamento e il sostegno di una parte della popolazione verso il «socialismo» rappresentavano, per Mosca, non solo un’opportunità ma anche e soprattutto una preoccupazione. Vigeva infatti il timore che gli elementi eterodossi potessero rafforzarsi, a scapito di qualsiasi controllo. Dal 1948, con il precedente jugoslavo, di fatto i timori per uno scollamento dell’ancora fragile assetto delle «democrazie popolari» aveva poi preso sostanza come uno spettro dominante negli incubi dei normalizzatori.

La purga all’interno del Partito comunista cecoslovacco si inserisce quindi dentro questo quadro d’insieme. Il Paese era stato, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, un rilevante sostenitore della nascita dello Stato d’Israele, schierandosi a favore della conclusione del mandato britannico, riconoscendo sul piano diplomatico il nuovo Stato e aiutando militarmente lo sforzo ebraico nella Palestina. Anche in ragione di tutto ciò – altrimenti interpretato come un atteggiamento storicamente amichevole verso le ragioni del mondo ebraico – la successiva gogna pubblica del processo contro il gruppo dirigente comunista di estrazione ebraica segnò i conseguenti rapporti tra ebraismo e sinistra comunista. Accrescendo un divario che già esisteva ma che ora andava progressivamente assumendo le proporzioni di una separazione incolmabile. Gli imputati, costretti a recitare confessioni mandate a memoria, erano stati accusati non solo di tradimento ma anche di essere degli individui sleali poiché intimamente incapaci di accogliere gli autentici «valori socialisti». L’origine ebraica, risolta nel calcolato richiamo al «sionismo», inteso come iperbolica metonimia del male, ne avrebbe segnato una volta per sempre la vocazione borghese, «cosmopolita» e quindi antinazionale. Oltre che, ovviamente, antiproletaria.
Il fantasma che veniva evocato, ancora una volta, era quello dello sradicamento: i rei confessi portavano con sé un peccato d’origine, ossia di essere dei non integrati nella società cecoslovacca. Nonostante il curriculum resistenziale che ognuno d’essi poteva vantare, la stessa attiva partecipazione, di lunga data, al Partito comunista veniva adesso letta in maniera capovolta, ovvero come indice del tentativo di mimetizzarsi per potere meglio ledere gli interessi della collettività socialista. Cinquant’anni e più dopo la creazione e la diffusione dei «Protocolli di Sion» – nei quali si accusavano indistintamente gli ebrei di vocazione al complotto – le autorità di un paese comunista reintroducevano l’infamante accusa di un nesso diretto tra ebraismo e sovversione degli ordinamenti politico-istituzionali. La pericolosità di tale associazione risiedeva anche nel fatto che gli imputati del processo Slánský avevano abbandonato da molto tempo la loro identità ebraica, semmai riconoscendosi esclusivamente in quella comunista. Si trattava di «marxisti di origini ebraiche che avevano rinnegato il loro patrimonio per servire come apostoli il comunismo» (così Anti-Defamation League). D’altro canto, come avrebbe scritto Heda Margolius-Kovaly, sopravvissuta ad Auschwitz e moglie di Rudolf Margolius, una delle vittime del processo, «il comunismo era l’ideale eterno dell’umanità, non potevamo dubitare dell’ideale, solo di noi stessi». In buona sostanza, le accuse di cosmopolitismo, di nazionalismo borghese, di congiura ripetuta, di mimetismo erano funzionali a corroborare il convincimento che il vero problema fosse costituito dall’origine ebraica, intesa come una sorta di cattiva pianta, sostanzialmente inestirpabile se non attraverso il ricorso alla spada, ossia alle persecuzioni legali di Stato.

Due testimonianze di quel periodo così terribile rendono ancora meglio l’idea di cosa stesse accadendo. Artur London ricorda come durante gli interrogatori i suoi inquisitori gli avessero detto che «il solo fatto che tu, un ebreo, sia tornato vivo [da Mauthausen], è una prova sufficiente della tua colpevolezza, e quindi ci dà ragione». Così come ancora Heda Margolius-Kovaly rammenta che «poi ho scorso in basso alla lista degli accusati. C’erano quattordici nomi. Undici di loro sono stati seguiti dalla nota “di origine ebraica”. Poi sono arrivate le parole sabotaggio, spionaggio, tradimento, come salve all’alba. Con insolita chiarezza ho sentito la donna nel letto accanto al mio sussurrare alla vicina di casa “si deve leggere questo: è Der Stürmer tutto da capo!” e poi la voce del venditore zoppo dei giornali nel corridoio, “bisogna leggere questo per vedere come quei porci ci abbiano venduto agli imperialisti, i bastardi! tutti dovrebbero essere impiccati in pubblico!»
Dopo la morte di Stalin gli aspetti più deliranti dell’antisemitismo di Stato si attenuarono. Si entrava in un’altra epoca, nella quale tuttavia paesi come la stessa Cecoslovacchia e la Romania ricorsero comunque ancora a politiche di emarginazione delle componenti ebraiche. Il silenzio sullo sterminio nazista rimase peraltro inalterato. Dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967 le campagne antisioniste avrebbero infine ripreso forza e vigore, raccordandosi ai fermenti in corso in Medio Oriente. Ma si era già ad altra epoca, con i primi scricchiolii di un sistema che stava rivelando di avere i piedi d’argilla.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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