Poesie di resistenza e di futuro
“Cos’è il silenzio? Qualcosa del cielo in noi”. Il silenzio può essere segno di indifferenza e omissione oppure forma di resistenza e perfino strumento per ricostruire su nuove basi una comunità dilaniata dall’irrompere della violenza. “Il silenzio costituisce una siepe per la saggezza”, secondo l’espressione di rabbi Aqivà riportata nei Pirqè Avot (su JoiMag un percorso sul silenzio a partire dagli aforismi del trattato rabbinico). È il cielo che scende sulla terra e un intervallo indispensabile senza il quale la musica sarebbe soltanto frastuono. Intorno al silenzio e al suo rumore talvolta assordante, talvolta impercettibile, si sviluppa la riflessione in versi del poeta Ilya Kaminsky.
Repubblica sorda è uscito negli Stati Uniti nel 2019 e meno di un anno fa in Italia per i tipi della Nave di Teseo con testo originale inglese a fronte. Dramma in due atti, libro di poesie, romanzo in versi, testo illustrato; e inoltre tragedia, storia d’amore, favola, inventario ragionato di crudeltà, allegoria. Difficile scegliere in quale scaffale riporlo perché sfugge alla logica dei generi. Di certo negli Stati Uniti è diventato immediatamente un caso letterario. L’American Academy of Arts and Letters ha definito le sue poesie come “una controparte letteraria di Chagall in cui le leggi di gravità sono sospese e i colori riassegnati, ma solo per rendere la realtà quotidiana molto più indelebile”. L’autore di Repubblica sorda si chiama Ilya Kaminsky, viene dall’Ucraina ed è ebreo. Nato nel 1977, vive a Odessa fino all’età di sedici anni quando riesce finalmente a trovare asilo con la famiglia negli Stati Uniti. Siamo nei primi anni novanta, quando centinaia di migliaia di ebrei dell’ormai ex Unione Sovietica lasciano quella gigantesca prigione a cielo aperto che per decenni ha impedito loro di emigrare senza al contempo fare nulla (nel migliore dei casi) per limitare la diffusa ostilità antisemita. Inoltre Kaminsky è affetto da sordità da quando ha quattro anni per effetto di una parotite malcurata; soltanto dopo l’arrivo negli Stati Uniti torna a sentire grazie a un apparecchio acustico.
Nel backstage del libro ci sono dunque l’esperienza personale della sordità e le molte identità dell’autore – ebraica, ucraina, statunitense – ma anche un mondo, il nostro, pieno di parole spesso urlate e di violenza spesso esibita; non mancano riferimenti a temi caldi di cui molto si discute negli Stati Uniti negli ultimi anni come la violenza della polizia o quel modello nuovo e devastante di business politics che è arrivato con Donald Trump a conquistare il vertice del potere. Ma leggendo oggi Repubblica sorda è inevitabile pensare soprattutto alla guerra in Ucraina, perché Kaminsky racconta la storia di un’invasione.
“Il nostro paese è il palcoscenico”, si chiama Vasenka e un giorno arrivano i soldati. “Per difendere la nostra libertà”, dicono con la più classica delle menzogne. Descrivendo un bombardamento il poeta paragona “il mio paese” a un “canarino azzurro”, fragile uccello che porta così su di sé i due colori della bandiera ucraina, il giallo e il blu. La prima reazione – e la prima forma di silenzio – è però l’indifferenza. “E quando bombardavano le case degli altri, noi / protestavamo / ma non abbastanza, facevamo opposizione ma non / abbastanza”. Una variazione su un tema classico della letteratura impegnata del Novecento, lo stesso dei versi celebri del pastore Martin Niemöller (spesso attribuiti a torto a Brecht): “Prima di tutto vennero a prendere… [le varianti non si contano: nella più nota nell’ordine zingari, ebrei, omosessuali e comunisti] Un giorno vennero a prendere me, e non era rimasto nessuno a protestare”.
Poi, durante una protesta, viene ucciso Petya, un ragazzo sordo. Lo sparo è l’ultimo suono che gli abitanti del paese sentiranno, perché precipitano in una immediata sordità collettiva che è prima di tutto una forma di resistenza. “Il nostro udito non diminuisce, ma qualcosa di silenzioso si rafforza in noi”, scrive Kaminsky. In questo momento “la sordità, un’insurrezione, comincia”. “Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto come una graffetta. / Il corpo del ragazzo è steso sull’asfalto / come il corpo di un ragazzo”. Allora “i cittadini intrecciano le braccia a formare un cerchio e poi un altro cerchio intorno al primo e un altro cerchio per tenere lontano i soldati dal corpo del ragazzo”. I soldati urlano ordini che nessuno sente più. A un tratto qualcuno solleva un cartello sopra la testa con una scritta: “La gente è sorda”. Il silenzio ammanta la città e avviluppa gli abitanti come una fitta nebbia. “La sordità è sospesa sopra tetti di latta azzurra / e gronde di rame; la sordità / si ciba di betulle, lampioni, tetti d’ospedale, campane; / la sordità si posa nel petto dei nostri uomini”. “In questi viali la sordità è la nostra unica barricata”. Quando i soldati prendono uno dei protagonisti, Alfonso, “ciascuno di noi / è testimone” ma “nessuno si fa avanti. Il nostro silenzio si fa avanti per noi”. “Non sono sorda”, pensa Momma Galya mentre dal teatro di burattini guida la resistenza, “ho solo detto al mondo // di spegnere per un po’ la sua musica folle”.
Attraverso stili e punti di vista diversi il libro traccia una storia unica di guerra e incomunicabilità. Allo stesso tempo, dal silenzio emergono nuove forme di relazione non verbale. I cittadini del paese inventano un nuovo linguaggio dei segni che è la premessa di un nuovo modo di stare insieme. Gesti, segni e sguardi dominano la scena mentre “nelle orecchie della città, cade la neve”. Tra i protagonisti della comunicazione non dialogica ci sono molti bambini. Bambini che non sentono, ma che si relazionano ugualmente con ciò che li circonda e partecipano alla resistenza. Per esempio, “una bimba impara il mondo mettendoselo in bocca”. E “cos’è una bambina?”, chiede il poeta. La risposta è consegnata a parole lapidarie: “Una pausa tra due bombardamenti”.
La sordità collettiva è provocata dall’ingiustizia e dalla violenza gratuita che viene descritta anche ricorrendo a scene forti. Ancora una volta, al centro ci sono i bambini. “Copro gli occhi di Gena, sette anni, e Yasha, nove, / mentre il padre si cala i calzoni per la perquisizione, e la carne gli trema”. “I bambini ci guardano guardare: / i soldati trascinano su per la scala un uomo nudo. Insegno alle mani dei suoi bambini a fare / dell’angoscia una lingua – / ecco come la sordità ci inchioda ai nostri corpi”. Ma la negazione dell’altro come individuo e come collettività si scontra con il fatto che l’altro c’è, è qualcosa di determinato in uno spazio e in un tempo. La negazione è quindi per essenza destinata allo scacco perché negando qualcosa o qualcuno lo presuppone. “Eppure, io sono. Io esiste. Io ha / un corpo”, scrive Kaminsky. Essere presente, essere qui è un fatto. Anche quando la storia viene scritta dai vincitori, quando “anni dopo, qualcuno dirà che niente di tutto questo è successo; i negozi erano aperti, eravamo felici e andavamo agli spettacoli di burattini nel parco”, anche in questo caso “in certe notti, la gente smorza le luci e insegna ai figli la lingua dei segni”, insegna loro con i gesti a non avere paura.
Il rumore del silenzio è anche quello di The Sound of Silence, la meravigliosa e sempre attuale canzone di Simon e Garfunkel. Ma nel libro di Kaminsky, diversamente dalla canzone, vediamo in primo piano la dimensione collettiva della sordità e del silenzio e la violenza esplicita della guerra. Vediamo inoltre le aporie e le contraddizioni del silenzio, il cui significato è tutt’altro che univoco. Il silenzio è come un’asta senza la bandiera, secondo un’altra immagine del poeta, in strade coperte di neve. È anche una modalità della protesta, della rivolta. A patto di sapere che “i sordi non credono al silenzio. Il silenzio è un’invenzione degli udenti”.
Ilya Kaminsky, Repubblica sorda, traduzione di Giorgia Sensi, La Nave di Teseo