Miss Hitler e gli altri: un ragionamento sulle nuove espressioni di antisemitismo
Si potrebbe risolvere l’ennesima manifestazione di demenzialità con un atto di sufficienza, ovvero un’alzata di spalle, segno manifesto di sostanziale biasimo commisto a stanca incredulità. Per intenderci, che in Italia sussista, dal 1945, un robusto deposito neofascista è cosa risaputa anche dai muri. Scandalizzarsi di esso, ovvero dei suoi lasciti, come anche di sue eventuali reviviscenze ai giorni nostri, sarebbe un po’ come scoprire l’esistenza dell’acqua calda. Dopo di che, il vero problema – in questo come in altri casi – non è mai fare la parte delle “persone navigate”, ovvero quelle “di mondo”, che per il fatto stesso di essere tali sanno che il reciproco inverso della ragionevolezza di buon senso sia, invece, l’accettazione di un certo grado di psicopatia collettiva. L’incipit di queste righe serve infatti per introdurre la questione di fondo, malgrado tutto già nota ai lettori delle nostre pagine: non solo esiste – e si riproduce incessantemente – l’antisemitismo, ma esso, oltre ad assumere nuove vesti, sa anche e soprattutto rigenerarsi come tradizione consolidata. Che nel nostro caso rimanda alla destra reazionaria, quella però di “popolo”, tale in quanto per nulla estranea ai risentimenti collettivi. Anzi, semmai capace di intercettarne la traiettoria e di deviarla a proprio beneficio. Quand’anche sia costretta a rimanere, sul piano politico, un’espressione sostanzialmente minoritaria, condensata nelle strologate di piccoli gruppi la cui visibilità è fortemente amplificata dal web.
La ragione di tutto ciò, a ben pensarci, sta in quel combinato disposto tra radicalismi estremi, come tali coltivati ideologicamente da pochi, e sfondamento del senso comune, che invece riguarda i molti, quand’anche questi ultimi siano estranei all’estremismo dei militanti più esacerbati. Poiché la miscela devastante non sta mai nell’adesione diretta ed immediata della collettività ai moventi e alle motivazioni radicali, cosa quasi sempre difficile se non impossibile: piuttosto ci si misura con un abbassamento collettivo degli anticorpi, allorquando elementi dei discorsi di piccoli gruppi, sospesi tra suprematismo, intolleranze assortite, razzismo e antisemitismo, superano la porta di ingresso della quotidianità, entrando quindi a fare parte dei discorsi di senso comune. Si tratta, beninteso, non di un’azione di forza bensì di uno slittamento progressivo dei dispositivi di pensiero, ossia dei modi di concepire la vita associata.
L’antisemitismo – che non è un’ossessione degli ebrei, semmai costituendo uno spettro indomato nei pensieri dei non ebrei – si inscrive a pieno titolo dentro un tale quadro di riferimento. Poiché non è mai un segnale di eccezione bensì un indice, ancorché di patologia, dell’andamento delle società. Di esse, infatti, si propone come una sorta di specchio capovolto, dove ad essere messe in rilievo non sono le virtù dello stare insieme ma i rancori, mai risolti, del dovere interagire tra pari, laddove però ad una parte di essi si attribuiscono le cause e le colpe delle proprie difficoltà. Tutta la tessitura del discorso antisemitico si articola intorno al fantasma del «giudeo» come minaccia, tanto più pericolosa dal momento che agisce nelle penombre dell’esistenza collettiva, sfruttando a proprio beneficio la propensione al complotto, all’inganno, alla sopraffazione.
Veniamo tuttavia al dunque: in questi giorni le forze dell’ordine hanno dato corso ad un’azione repressiva contro gli appartenenti a «Ordine ario romano», un’organizzazione dai caratteri dichiaratamente neonazisti che, a detta degli inquirenti, stava pianificando un’azione violenta contro un non meglio precisato obiettivo della Nato. Nel suo insieme, gli interessati ai provvedimenti di indagine, a partire dall’associazione finalizzata a propaganda e istigazione di discriminazione etnica e religiosa, sono una dozzina. Scrive il giudice per le indagini preliminari, nel dispositivo di rinvio a giudizio, che «i militanti sono accomunati da un’univoca concezione politica e culturale infarcita di sentimenti suprematisti e di disprezzo». Tra di essi si trova anche la già nota – quanto meno alle spumeggianti, nonché transitorie, fortune del web – Francesca Rizzi, conosciuta come «Miss Hitler», tale poiché – tra le altre cose – porta tatuata sulla schiena, a tutto campo, un’aquila nazista con la svastica. Stemma, quest’ultimo, del cosiddetto «Terzo Reich», che esibisce con sicumera e compiacimento. Le invettive comunicate tra gli appartenenti al gruppo rimandano esplicitamente all’occorrenza di mondare il nostro Paese, e con esso – evidentemente – il mondo intero, dalla presenza degli ebrei. Quindi, in rapida successione, rimandi al fatto che «noi rigenereremo l’Italia fascista e antisemita», così come «siamo l’unica opposizione al sistema giudaico», ossia, «fuori i giudei dall’Italia». Al pari dell’invito: «affronta il problema ebraico con i fatti e non a parole. Riconosci solo due gene e salvatori dell’umanità ario-iperborea: Adolf Hitler e Benito Mussolini».
Sono alcuni dei deliri antisemiti postati sui social, soprattutto grazie all’amorevole e generoso soccorso di network russi (a partire da VKontakte), all’avanguardia nella diffusione di fake news ma anche nella promozione di contenuti d’odio. Su questi ultimi, inquietanti ombre nelle dinamiche della comunicazione online, ci sarebbe forse ancora molto da dire e, soprattutto, da capire. Certi social network sono divenuti le consapevoli e volontarie sentine di tutte le pattumiere ideologiche della nostra epoca. Da tempo, infatti, riciclano e riadattano al web quel viluppo di menzogne e manipolazioni che rimanda a complottismi, dietrologie, delegittimazioni, diffamazioni, mistificazioni: una sorta di macchina del fango, ovvero un ventilatore orientato contro le istituzioni della democrazia.
Il problema, in questo come in altri casi – tuttavia – non è il solo fatto che vi siano volenterosi alfieri della calunnia e della denigrazione (i «cattivi maestri»), bensì la presenza di eventuali astanti della loro diffusione (i pessimi allievi), questi ultimi postisi al riparo di un monitor, dietro il quale nascondersi, come anche di un’ideologia di sopraffazione nella quale letteralmente avvilupparsi. Un nome, in questa congerie, svetta poi tristemente tra gli altri, quand’anche la sua effettiva posizione debba essere ancora definita una volta per sempre dagli inquirenti, ed è quello di un professore e accademico, storico di vaglia, polemista di area, che si ritiene abbia intrecciato dei rapporti con il gruppo di “ariani”. Si definisce «nazional-conservatore-tomista»: quale sia la sua identità, ad onore delle cronache, non interessa ai fini di queste righe, poiché ciò che conta, come afferma il vecchio adagio, «non è il nome del peccatore bensì la natura del peccato». Si tratta comunque di materia oggetto di indagini, sulle quali possono pronunciarsi esclusivamente gli inquirenti. Semmai la sua eventuale condivisione non esclusivamente di parole e di idee ma anche di eventuali propositi, quanto meno in ipotesi, certificherebbe come l’estremismo di una destra non solo radicale ma soprattutto antidemocratica e anticostituzionale, trovi addentellati anche tra quanti, proprio dagli istituti della democrazia, hanno invece tratto giovamento in termini di libertà di espressione personale e di considerazione sociale. Una vera contraddizione in termini, per capirci. Peraltro in corso non da oggi.
Veniamo tuttavia al dunque. Il quale non è mai dato dalla sola persistenza, sospesa tra velleitarismo, anacronismo, efferatezza di parole e ferocia di minacce, di tentazioni criminali, pennellate e falsamente nobilitate da un incongruo rivestimento politico. Lo stretto rapporto tra gangsterismo ideologico e una certa idea di politica come lucido delirio, non è peraltro un riscontro di questa epoca, trattandosi semmai di un antico connubio. Il fatto che sia nella destra radicale che un tale rapporto a tutt’oggi meglio si esprime, deriva anche dal riscontro che è storicamente proprio in quell’area politica che si sono generati due regimi, quello fascista e il nazionalsocialista, per i quali le politiche sociali sono state anche e soprattutto politiche razziste, incorporate quindi nell’azione degli Stati e delle nazioni che si sono trovati a dirigere. La fine della guerra mondiale che avevano scatenato, con la sua lunga teoria di lutti e disastri, se ne ha decretato la caduta politica non ha tuttavia cancellato l’impronta ideologica che ad essi è sopravvissuta. Rinnovandosi nel tempo, quand’anche in forme underground o comunque sotto traccia.
La questione di fondo – ad oggi – è il perché proprio quegli istinti regressivi che il nazifascismo aveva legittimato e tradotto in azioni pubbliche, trovino nell’agone politico una nuova ribalta. Poiché se la percezione di certuni rimanda al ritenere che l’antisemitismo sia, in fondo, “cosa vecchia”, quindi in buona sostanza residuale, in quanto scoria del tempo trascorso, la consapevolezza degli altri è che proprio per una tale ragione esso non abbia per nulla esaurito la sua capacità di generare consenso intorno a se stesso. E qui, a fronte del ripetersi di vecchi schemi, ne subentrano anche di nuovi. In quanto la saldatura che in quest’ultimo decennio è andata verificandosi è quella che intercorre tra razzismo, suprematismo e sovranismo. Il razzismo, in questo sistema di correlazioni, riproduce il convincimento che l’umanità non esista, né che gli esseri umani abbiano pari dignità, semmai trattandosi di falsi concetti che andrebbero invece sostituiti con la scala gerarchica delle razze, suddivisa tra dominatori e dominati; il suprematismo traduce in azione politica un simile schema mentale, assicurandogli una sorta di nobiltà di senso comune, per la quale la prevaricazione di un gruppo definito come superiore, tale poiché al vertice dell’evoluzione umana, sarebbe legittimata dall’equilibrio tra comunità apicali e gruppi inferiori; il sovranismo, infine, introduce in una tale meccanica il ruolo dello spazio politico, inteso come terra da mantenere ancorata al predominio di uno specifico gruppo etnico.
Questi tre elementi sono tra le cornici dell’attuale antisemitismo, ossia della sua capacità, mimetica e camaleontica, di adattarsi alle circostanze date, così come di fornire ad esse una sorta di soccorso ideologico di lungo periodo. Sono le coordinate della sua rigenerazione, ovvero della sua attualità, che dai discorsi per pochi affiatati, gli affiliati o i fidelizzati a gruppi ristretti, ben presto tracima dentro i grandi contenitori della comunicazione social. Come già è avvenuto negli ultimi due secoli, nell’età della modernità, anche oggi il cercare da subito un’immediata corrispondenza tra pregiudizio e sua trasposizione politica può soddisfare alcune esigenze di comprensione ma non ci restituisce la trama complessa del medesimo. Non di meno, ci segnala quanto il campo della stessa politica stia mutando nel suo insieme, attraversato com’è da una lunghissima ondata di ostilità, di rabbiosità, di rancori e di angosce che sono alla ricerca di una nuova regia. Le vicende di un piccolo gruppo di potenziali eversori, quindi, se in se stesse ci possono raccontare solo del loro personale deragliamento etico, quando invece vengono rilette in controluce, ossia in rapporto ad un pubblico ben più vasto, che assente attraverso i mezzi di comunicazione di massa, diventano una sorta di cartina di tornasole di una febbre che accompagna una parte non secondaria delle nostre società. Quali siano i rimedi ad un tale stato di cose, siamo ancora lontani dall’averlo capito.
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Non sarebbe più efficace, al punto in cui siamo, ricostruire le reti di diffusione delle idee neonaziste e imperldire loro di nuocere.
Si tratta di una strategia di guerra alla democrazia e alla civiltà occidentale.
Abbiamo competenze per ricordare i precedenti e riconoscere tutti i sintomi: forse non è più il tempo di capire, ma di organizzare una difesa.