Cultura
Porci del Mossad e ebrei ortodossi nazisti a Documenta

Esposto e poi ritirato all’importante rassegna di Kassel, in Germania, il murale del gruppo artistico indonesiano mostrava simboli antisemiti. Un ragionamento a partire dai fatti di cronaca

Qualche giorno fa è arrivata la notizia che a Kassel, nella prestigiosa rassegna Documenta, era stata esibita un’opera realizzata dal collettivo Taring Padi, un grosso disegno murale intitolato People justice, un tributo alle vittime dell’imperialismo  indonesiano. Tra le varie figure grottesche ne spiccavano due: un maiale in uniforme con al collo una sciarpa con la stella di David e sull’elmetto la scritta Mossad e una specie di ebreo ortodosso con i payot, i denti aguzzi e il simbolo delle SS sulla bombetta (avremmo voluto mostrarvi la foto dell’opera, ma essendo stata rimossa dalla rassegna l’ufficio stampa ha deciso di non divulgarne più l’immagine – ndr). Subito è scattato l’allarme antisemitismo e dopo lunghe polemiche  e interventi della presidente Claudia Roth, la direttrice Sabine Schormann alla fine si è dimessa. Gli artisti del murales si sono scusati, non pensavano di offendere nessuno e non avevano capito che in Germania immagini del genere urtassero “ancora” la sensibilità della gente.

Resta tuttavia da capire che cosa c’entrassero quei due personaggi con l’imperialismo indonesiano. Sapendo pochissimo della cultura di questo paese sono andata a fare qualche ricerca su google. Scopro ad esempio – ne ha parlato anche Joi in un articolo di Micol Sonnino – che si sta assistendo ad un recupero delle tradizioni ebraiche ma in altri articoli che ho trovato si riporta che c’è una forte componente antisemita di stampo antisionista, fomentata dai fondamentalisti islamici, che rende i rapporti tesi al punto che portare in testa una kippà a Jakarta può risultare ancora un pericolo. Come è bastato a me rendermi conto che il problema dell’antisemitismo e della rabbia contro Israele e America sono molto forti e attuali, sicuramente il fatto non può essere sfuggito alla direttrice di Documenta che, anzi, nei giorni precedenti aveva organizzato una serie di incontri pro-Palestina senza invitare nessun artista israeliano a rappresentare l’altra parte. Qualche dubbio sulla buona fede e la volontà di dialogo quindi viene. Si è poi innescata nei giorni successivi alla rimozione del murales una spirale di violenza: un atto vandalico e islamofobico contro lo stand di un artista palestinese, gesto che ha generato ulteriori polemiche. È noto che la Germania, benché solo dagli anni ’70 in poi, ha preso molto sul serio le proprie responsabilità e ha contribuito a creare una consapevolezza sul passato a livello nazionale attraverso educazione e cultura. È noto anche che da qualche anno Berlino ha visto una rifioritura straordinaria della cultura ebraica contemporanea con l’arrivo di scrittori e musicisti  israeliani che hanno ormai la loro seconda casa nelle città tedesche e sono stati accolti con onori e attestati di stima. In particolar modo, dal punto di vista musicale, sono nati molti festival importanti di klezmer – come quello di Weimar – e di canzoni yiddish. I musicisti in genere sono europei ed americani e lavorano spesso sulla rivisitazione di temi classici come la rivolta contro l’ingiustizia e l’oppressione, il bisogno di libertà in chiave politica e moderna, con particolare accento su interpretazioni di estrema sinistra inneggianti all’anarchia. Una specie di “Fuck the police” in chiave yiddish-klezmer-punk. E spesso pure in versione anti-sionista: Israele è visto come il paese schiavista, capitalista, che imprigiona i palestinesi, abusa del suo potere e non ha diritto di esistere.

Quindi in Germania si costruisce il museo della Shoah per gli ebrei morti, le vittime del genocidio, e si accettano e si acclamano gli ebrei vivi soltanto se rinnegano lo Stato di Israele? Non so, è solo un’osservazione che mi è venuta in mente, un brivido che mi è corso per la schiena. Un dubbio. Ma non è che in tutto questo grande appoggio e entusiasmo si nascondono ombre non elaborate? Che si chieda agli ebrei di scusarsi di essere ebrei, di prendere le distanze dal loro stato,  per essere accettati? George Tabori, grande scrittore e autore teatrale che dedicò la sua esistenza a lavorare con gli attori tedeschi sui temi della Shoah, pur avendo perduto gran parte della famiglia ad Auschwitz,  una volta scrisse in una lettera, con il suo solito stile caustico: “I tedeschi non ci perdoneranno mai l’Olocausto”. Lo stesso Tabori fu uno dei pochi intellettuali che non firmarono per la costruzione dell’edificio di Daniel Libeskind sostenendo che il popolo tedesco non aveva bisogno di pietre e luoghi simbolici per lavarsi la coscienza, ma aveva ancora molto bisogno di elaborare visceralmente i motivi dello sterminio. Secondo lui era un viaggio che non poteva passare solo attraverso i programmi tv e le buone intenzioni intellettuali, il senso di colpa congelato e le cerimonie ufficiali, ma andando a scovare “l’Hitler che è in noi”. Viene il dubbio che sotto il politically correct tedesco e il grande entusiasmo verso gli ebrei “buoni”, quelli che rinnegano Israele (mentre gli altri restano porcini e nasuti come quelli della propaganda nazista) ci sia ancora molto da tirare fuori e analizzare. 
Laura Forti
collaboratrice
Laura Forti, scrittrice e drammaturga, è una delle autrici italiane più rappresentate all’estero. Insegna scrittura teatrale e auto­biografica e collabora come giornalista con radio e riviste nazionali e internazionali. In ambito editoriale, ha tradotto per Einaudi I cannibali e Mein Kampf di George Tabori. Con La Giuntina ha pubblicato L’acrobata e Forse mio padre, romanzo vincitore del Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Con Guanda nel 2022 pubblica Una casa in fiamme.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.