Cultura
Massimalisti revisionisti, il fascismo ebraico ai tempi del protettorato britannico

Storia di un movimento che si ispirava a Mussolini e boicottava il nazismo. Per conoscere la storia e capire il presente

Tra i fatti più chiacchierati della turbolenta campagna elettorale israeliana di questa primavera – che si è risolta in un nulla di fatto, visto che si torna a votare il 17 settembre – c’è stato il video-spot di Ayelet Shaked, co-leader della Nuova Destra insieme a Naftali Bennet. Nel video in bianco e nero, che richiama le atmosfere di uno spot Lancôme o Dior e in cui ci aspettiamo di sentir parlare francese da un momento all’altro (ma anche un nostrano “Acqua di Giò” funzionerebbe), Shaked ha una boccetta di profumo che porta il nome “Fascismo” e se lo spruzza con fare seducente. Una voce di sottofondo scorre i punti chiave del programma del partito, come a chiarire che “fascismo” è un’accusa dell’opposizione per delegittimare idee del tutto normali. “Fascismo? Per me profuma di democrazia”, dice Shaked nello slogan finale.

Lo storico Dan Tamir, in un articolo pubblicato da Haaretz il 20 luglio, parte proprio da qui per porre queste domande: cosa vuol dire sentire “odore di fascismo”? Ci sono stati dei momenti della storia di Israele da cui possiamo imparare? La risposta si trova nelle vicende dell’yishuv, il focolaio nazionale ebraico di Palestina costituitosi prima della proclamazione dello Stato di Israele. Il sogno dello Stato: ogni gruppo aveva la propria idea politica e sociale di come realizzarlo più in fretta e meglio. E tra i tanti, a un certo punto comparvero anche i fascisti. Un gruppo minoritario, quello dei massimalisti revisionisti guidati da Abba Ahimeir, che si ispirava deliberatamente al modello mussoliniano. Un movimento che ebbe vita breve, ma vale la pena di ritracciare le linee della sua storia poco conosciuta.

Una definizione di fascismo

Cos’è il fascismo, cosa lo distingue dalle altre correnti di destra? Perché in riferimento ai massimalisti revisionisti possiamo, senza timore di esagerazioni, parlare di “fascismo ebraico” mentre per altri movimenti invece no?

Tamir, che è anche autore del libro Hebrew Fascism in Palestine 1922-1942 (Ed. Palgrave Macmillan, 2018), propone la definizione usata dal politologo e storico Robert Paxton nel suo saggio del 2004 The Anatomy of Fascism. Il fascismo, come ideologia e pratica politica, si distingue per sette caratteristiche: 1) certezza della supremazia del gruppo – nazionale, etnico, ecc. – sopra ogni diritto dell’individuo; 2) convinzione che il proprio gruppo sia vittima di altri gruppi e che ogni azione contro di essi sia legittima; 3) paura che il proprio gruppo venga indebolito da influenze “liberali” o “straniere”; 4) perseguimento di un’idea di purezza della comunità nazionale; 5) insistenza sul diritto del gruppo di dominare gli altri senza alcun limite, in virtù delle sue caratteristiche superiori; 6) percezione di una grave e imminente crisi, non risolvibile con soluzioni tradizionali; 7) convinzione della necessità di un leader unico, al quale obbedire perché possiede qualità e abilità fuori dalla norma. E come ottava caratteristica, puntualizza Tamir, si potrebbe aggiungere la feroce opposizione al socialismo in ogni sua forma.

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La corrente massimalista revisionista che si forma in Palestina negli anni ’20 incarna proprio questi tratti. Le cause della sua nascita? Non dissimilmente dall’Europa, il senso di insicurezza che pervade l’yishuv dopo la fine del primo conflitto mondiale: “Economia in stallo, una società di massa in possesso di moderne strutture di partito, due comunità nazionali [ebrei e arabi] in conflitto l’una contro l’altra, delusione di fronte alla percepita inefficienza dell’establishment politico e scetticismo nella capacità delle autorità del Mandato Britannico di assicurare supporto e protezione”, continua Tamir, “Tutto ciò scatenò la ricerca di nuove risposte politiche. E come in Europa, alcuni la trovarono nel fascismo”.

Abba Ahimeir e il Brit HaBirionim

Il movimento massimalista revisionista nasce ufficialmente nel 1930 su iniziativa di un giornalista e attivista di origini russe, Abba Ahimeir. Interessanti gli esordi: impegnato nel movimento laburista, collaboratore regolare di Haaretz e di Davar (quotidiano in lingua ebraica pubblicato dall’Histadrut, il sindacato israeliano, dal 1925 al 1996), ammiratore di Lenin e della rivoluzione bolscevica. Nel 1926 scrive, riferendosi in particolare agli esempi di Mussolini e Atatürk: “La presa di coscienza che il sistema parlamentare è deleterio per la realizzazione delle moderne aspirazioni e idee incoraggia la creazione di una nuova ideologia di democrazia” (citato in C. Shindler, The Rise of Israeli Right).

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Con Ahimeir ci sono il poeta Uri Zvi Greenberg e il medico e scrittore Joshua Heschel Yevin: il trio fonda il gruppo clandestino Brit HaBirionim (“L’alleanza degli zeloti”, con riferimento alle lotte contro i Romani del I secolo), di ideologia nazionalista e filofascista, e con esso un proprio giornale, Ha’am (“Il popolo”, che l’anno dopo cambia nome in Hazit Ha’am, “Il fronte del popolo”). Le idee espresse sono analoghe a quelle dei movimenti fascisti europei: fede nella superiorità del proprio gruppo nazionale e nella minaccia rappresentata dagli altri, disprezzo per moderati e liberali, rifiuto di contemplare la possibilità del compromesso con inglesi e arabi, glorificazione della violenza come mezzo politico. Frequenti sono le attestazioni di ammirazione e desiderio di emulazione dell’Italia di Mussolini, dal modello di Stato corporativista, all’indottrinamento della gioventù, all’idea di leader unico e carismatico che incarni la volontà nazionale.

Il gruppo Brit HaBirionim nasce in teoria come affiliato al più vasto Movimento Sionista Revisionista – la più importante realtà di opposizione all’ideologia laburista dominante dell’yishuv, sulla cui esperienza si formerà la destra israeliana – ma i suoi aderenti quasi subito sconfessati dal leader Ze’ev Jabotinsky, il quale, contrario al culto del leader unico e fermo sulla validità di un modello parlamentare per il futuro Stato, li considera una manica di esaltati. Isolati dall’ambiente dal quale si aspettavano sostegno, gli zeloti del ventesimo secolo hanno vita molto breve: nel 1933, Ahimeir e altri due del gruppo, Zvi Rosenblatt e Avraham Stavsky, vengono arrestati con l’accusa di aver assassinato il leader laburista Chaim Arlosoroff. Da questa accusa Ahimeir viene scagionato, ma passa comunque due anni in prigione per attività illegali. (Tra parentesi, il delitto Arlosoroff è tuttora avvolto nel mistero: si veda Saul Jay Singer su The Jewish Press)

Brit HaBirionim cessa ufficialmente di esistere, ma alcuni dei suoi aderenti, così come altri del movimento revisionista at large, mantengono legami con l’Italia fascista fino al 1938: li troviamo all’Accademia Navale Betar di Civitavecchia tra il 1935 e il 1937 e in diverse università italiane. Tra gli alumni di questo periodo, c’è anche lo scrittore Zvi Kolitz, che al ritorno in Palestina scrive una biografia entusiasta di Mussolini. E allo scoppio della guerra, si arruola nell’esercito britannico per combattere i nazisti. Non un caso isolato: i massimalisti revisionisti coniugano l’ammirazione per l’Italia fascista alle attività di sabotaggio e boicottaggio della Germania nazista (che fino allo scoppio della guerra, ricordiamo, mantiene un consolato a Tel Aviv). Poche idee e confuse, diremmo oggi. Ma fino alla promulgazione delle leggi razziali del ’38, ciò era sembrato perfettamente coerente.

“Eau de fascisme”, nel mondo di oggi

Dopo l’esperienza della guerra e della Shoah, divenne opinione condivisa che, a dover proprio accostare il fascismo a una sensazione olfattiva, questa poteva soltanto essere una puzza, dalla quale scappare il più lontano possibile, non certo una fragranza dell’alta moda. Ma oggi?

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Quelle idee, quei “sette punti” che affascinarono il piccolo gruppo di Ahimeir potrebbero tornare ad attrarre e magari conquistare una piattaforma più larga nell’Israele odierna? Alcuni elementi di retorica simil-fascista, dice Tamir, sono presenti nel discorso della destra israeliana, ma parlare acriticamente di fascistizzazione è sbagliato. La società e la politica israeliana sono pluraliste (e come vediamo nei periodi elettorali, certe volte fin troppo), la divisione dei poteri è solida e soprattutto, agli anarchici israeliani non puoi vendere molto facilmente la faccenda dell’unico leader carismatico: “Uno dei tratti caratterizzanti la società israeliana – e per le cui profonde radici dovremmo forse essere grati all’esistenza delle tradizioni rabbiniche e sciaraitiche – è lo scetticismo nei confronti dell’autorità e il rifiuto di obbedienza a una figura singola”.

Tuttavia, non bisogna abbassare la guardia: il fascismo, come ogni forma di pensiero, non è monolitico, adatta i suoi linguaggi e obiettivi al periodo storico nel quale è immerso.

Silvia Gambino
Responsabile Comunicazione

Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.


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