Sul perché si mangiano i latticini e sulle ricette a base di cereali (con le indicazioni per preparare un pane celestiale)
Tecnicamente, Shavuot sarebbe la festa del raccolto, della fine della mietitura sette settimane dopo il suo inizio a Pesach. Eppure, non sono né il grano né le primizie i protagonisti della tavola di questi giorni. Per capire di che cosa stiamo parlando, basterebbe pensare che dagli Stati Uniti a Israele la ricorrenza che quest’anno inizia la sera del 25 maggio è detta la festa della cheesecake. Senza arrivare a questi estremi, il concetto è chiaro. Abbiamo a che fare con formaggio, panna e tutti i derivati del latte. Consumarli nei due giorni di festa che impegnano le comunità diasporiche (in Israele dura solo per un giorno) non è un dovere, ma la consuetudine è diffusa. Sul perché questo avvenga, la letteratura rabbinica offre più teorie. Diverse di queste, le più diffuse, si rifanno a quello che dalla distruzione del Tempio in poi è diventato il significato principale della festa, ossia la rivelazione della Torah sul Monte Sinai.
Secondo una spiegazione possibile, l’uso di mangiare latticini ricorderebbe l’escamotage adottato dagli ebrei subito dopo avere ricevuto le Leggi, non potendo al momento contare né su carni né utensili kasher. La soluzione più facile sarebbe stata quella di mangiare formaggi e simili, almeno in attesa di applicare la macellazione rituale e di purificare pentole e piatti. Un altro motivo possibile si ritrova nelle parole del Cantico dei Cantici (4:11) dove la Torah è paragonata al latte: “Le tue labbra stillano come un favo di miele, miele e latte sono sotto la tua lingua”. Oppure dell’Esodo (3:8), dove si dice che Israele è la “terra dove scorre latte e miele”. Spostandosi in ambito cabalista, c’è chi identifica il valore numerico della parola halav, 40, con il numero di giorni che Mosè trascorse sul Monte Sinai per ricevere i Comandamenti. Secondo considerazioni che si rifanno alle abitudini delle antiche comunità contadine, il consumo del formaggio in questo periodo dell’anno sarebbe invece solo un’abitudine legata all’alta produzione di latticini in questo periodo.
Il consumo di latte e derivati è associato anche alla purezza rappresentata dal loro colore, lo stesso che renderebbe adatti alla festa anche alimenti come il riso e la farina di mais bianca. Se a quanto detto si aggiunge che, come ricorda lo storico Gil Marks, l’offerta del pane è uno dei pochi riti biblici prescritti per questa festa, si comprende anche l’enfasi sui pani di Shavuot. Che tra gli ebrei ucraini prevedono, tra le decorazioni, anche una scala a sette o a cinque pioli a ricordare l’ascesa di Mosè sul Monte Sinai. O, presso i sefarditi, comprendono preparazioni rotonde variamente modellate e guarnite chiamate siete cielos. Infatti, per quanto l’equivalenza tra Shavuot e latte sia particolarmente sentita presso gli ebrei ashkenaziti, non manca una robusta tradizione legata ai prodotti caseari anche presso i sefarditi.
Comporre un menu senza confini che vada al di là della pur deliziosa cheesecake e degli altrettanto classici blintz è dunque possibile. E può partire proprio dai prodotti di forno come il pan de los siete cielos. Preparato con un impasto lievitato a base di farina, zucchero, uova, latte e burro arricchito eventualmente da uvette e semi, questa focacciona condivide con challot e pani della festa dell’Europa Orientale non solo la ricchezza dell’impasto ma anche la fantasiosa guarnizione. Si pensa che sia stato creato in Spagna nell’epoca d’oro in cui gli ebrei vi convivevano pacificamente con musulmani e cristiani. E che l’ispirazione fosse arrivata proprio da questi ultimi, che per Pasqua preparavano impasti contenenti gli ingredienti dei quali si erano privati nelle settimane di Quaresima. Latticini compresi. Anche la forma particolarmente elaborata giungerebbe dalla tradizione cristiana, che puntava su motivi intrecciati e ghirlande. Preparato per Shavuot, questo pane aveva assunto presso gli ebrei una forma tondeggiante a simboleggiare il Monte Sinai e li avrebbe accompagnati dopo l’espulsione dalla Penisola Iberica. Affermatosi a Salonicco, questo scenografico pane avrebbe un suo corrispettivo anche presso le comunità ebraiche marocchine e tunisine, dove per Shavuot si usa preparare una torta a sette strati che porta lo stesso nome.
Restando in Grecia, troviamo un’altra delizia formaggiosa che prende il nome di bougatsa. Prevista sia in versione salata sia dolce, è composta da pasta fillo ripiena. Nata, si pensa, sempre tra i sefarditi di Salonicco, prevedeva in origine una farcitura a base di formaggio di bufala, poi sostituito nelle versioni moderne con quello vaccino. Le versioni salate prescrivono l’abbinamento tra feta e spinaci, mentre quelle dolci, ormai le più popolari (e spesso a base di crema pasticciera), possono coinvolgere tra gli ingredienti anche la cannella e la noce moscata, mescolate allo zucchero della guarnizione o al formaggio stesso.
Passando in Iraq, per Shavuot troviamo invece una sorta di crespella chiamata kahi (o kahee) preparata a partire da un impasto che viene steso, imburrato, piegato in quadrati e quindi fritto. Viene tradizionalmente servito con il kaymak, panna rappresa di bufala, che gli ebrei iracheni erano soliti preparare per Shavuot. Piuttosto popolare in Turchia e in Asia Centrale, questo latticino può essere sostituito dalla panna acida o anche semplicemente da una spolverizzata di zucchero a velo.
Restando in ambito salato e spostandosi in Siria, ecco spuntare un altro piatto dalla storia un po’ particolare. Si tratta dei calsones (o kalsonnes), sorta di ravioloni dal ripieno tradizionalmente al formaggio. Al pari dei nostri tortelli, possono essere di forma rotonda o a mezzaluna, anche se non mancano forme meno comuni da noi come quella triangolare. La sfoglia che ne costituisce l’involucro è invece più spessa e gommosa rispetto alla nostra pasta fresca. Differenze a parte, pare che le origini di questa pietanza siano in effetti italiane, ma i tortellini non c’entrano. I calsones sarebbero infatti una versione sefardita dei calzoni napoletani. Pare che a portarli in Siria fossero stati gli ebrei cacciati nel 1533 dal regno di Napoli. Il piatto originario, ben poco kasher, consisteva in una fetta di salsiccia avvolta in una sfoglia di pasta lievitata e quindi fritta. La prima cosa che avevano fatto gli ebrei siriani era stata ovviamente di eliminare la carne di maiale, sostituendola con del formaggio. L’altra variazione forzata riguardava la cottura. A differenza ad esempio che a Creta, dove pure i calsones erano arrivati e continuavano a essere fritti nell’olio, in Siria si era cominciato a cuocerli nell’acqua. L’olio qui non era così abbondante come sull’isola greca e anche la frittura non era granché diffusa. Una volta bolliti, questi rudimentali ravioli al formaggio venivano soffritti nel burro oppure solo imburrati e quindi passati in forno. Tra i ripieni possibili non mancano le varianti, prima tra tutte quella agli spinaci, ma il ripieno al formaggio è rimasto tra i più diffusi e apprezzati tra gli ebrei siriani. Dalla cena del giovedì, tradizionalmente a base di latticini, ai pranzi di Shavuot.
L’ultima tappa di questo rapido viaggio tra le tradizioni di Shavuot parte dal Medio Oriente e arriva in India. Parliamo dei sambusak, e siamo ancora nell’ambito dei fagottini dalle diverse cotture. Tra i diversi loro nomi alternativi vale la pena di ricordare quello che assumono in Turchia, dove sono chiamati borek, e in India, che li indica come somosa. Secondo alcuni, sarebbero loro i veri precursori dei calzoni italiani così come delle empanadas iberiche. Si trattava in origine di ritagli di pasta avvolti intorno a un ripieno prevalentemente di carne in modo da formare fagottini più o meno grandi. Potevano essere cotti al forno o fritti, a seconda della disponibilità del cuoco, ma i secondi restavano i più diffusi e alla portata di tutti. Citati per la prima volta in un testo del IX secolo in Iraq, i sambusak sarebbero stati portati dagli arabi dall’India alla Spagna subendo diverse variazioni sia per quanto riguarda la composizione della pasta, lievitato o no, sia per il modo di piegarla o di arrotolarla intorno al ripieno. Per quanto riguarda questo, tra le tante farce possibili quella al formaggio, specie quello molto salato, è stata a lungo la più comune tra gli ebrei, anche se non sono mai mancate le varianti a base di verdure, di legumi o di carne. Serviti un po’ in tutte le occasioni di festa, da Shabbat ad Hanukkah o a Purim, nel caso di Shavuot assumono un doppio valore. Uno legato alla presenza del formaggio, l’altro dovuto alla loro forma arrotolata che li accosterebbe a un rotolo della Torah, coperto fuori e con l’essenza ben chiusa all’interno.
Pan de los Siete Cielos
Ingredienti:
1 kg di farina
240 g di zucchero o di miele
1 cucchiaio di lievito secco
semi di anice
80 ml di latte
4 uova
1 tuorlo
50 g di uvetta
olio di semi di sesamo
sale
Sciogliere il lievito in 80 ml di acqua calda con 1 cucchiaino di zucchero. Lasciare riposare fino a quando si forma la schiuma. Setacciare intanto la farina e impastarla, a mano o con il robot da cucina, con 4 cucchiai di olio, il latte, ½ cucchiaino di semi di anice, le uova leggermente sbattute e 1 cucchiaino di sale. Aggiungere la miscela di lievito e lavorare ancora a lungo.
Ammollare nel frattempo l’uvetta in acqua tiepida, poi scolarla, asciugarla e incorporarla all’impasto. Formare una palla, riporla in una ciotola, coprirla e lasciarla riposare per una notte in frigo.
Riprendere l’impasto e prelevarne ¼, rimettendo il resto in frigo. Prelevare ¼ dal pezzo preso, tenerlo da parte e dividere il resto in 3 parti, intrecciandole come per una challah. Chiudere la treccia ottenuta in modo da formare la sommità del Monte Sinai.
Adagiare quanto preparato al centro di una teglia foderata con carta da forno. Prendere il restante pezzo di pasta e stenderlo in una lunga corda. Avvolgere la corda intorno alla “montagna” formando 7 giri.
Modellare il resto dell’impasto in forme quali le Tavole della Legge, un pesce, una mano, una colomba e la scala di Giacobbe. Applicare quanto preparato sulla corda che avvolge il monte, fissando le figure con un poco di tuorlo mescolato con acqua fredda. Usare il resto del miscuglio per spennellare tutto il pane, poi lasciarlo lievitare fino a quando sarà raddoppiato.
Cospargere il pane con semi di anice e cuocerlo in forno già caldo a 190° per circa 35-40 minuti o fino a quando sarà perfettamente dorato e asciutto. Lasciarlo raffreddare su una gratella prima di tagliarlo e servirlo.
Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.