Hebraica
Tradurre il nome di Dio

Nove modi, nove storie, nove filosofie per dire l’indicibile e per vedere oltre il visibile

Che cosa significa tradurre il nome di Dio? Quali sono i nomi scelti a questo scopo nelle lingue moderne e in italiano? Dalla prima traduzione, quella dei Settanta in greco, alle versioni aramaiche, dai filosofi medievali a Mendelssohn, S.R. Hirsch e Rosenzweig, in molti hanno riflettuto sul problema. In anni recenti André Chouraqui in Mosè. Viaggio ai confini di un mistero rivelato e di un’utopia possibile (Marietti), in un capitolo intitolato significativamente “I soprannomi dell’ineffabile”, elenca decine e decine di nomi scelti a tutte le latitudini per indicare il Dio biblico. Ma per Chouraqui sostituire il nome biblico “con quello di idoli rispettabili forse nei loro contesti culturali, ma che non hanno niente a che fare né a che vedere con la realtà dell’universo biblico” è la forma peggiore di tradimento della rivelazione mosaica e un passo decisivo sulla via della rimozione del popolo di questa divinità senza volto trasformata, come la creatura marina della mitologia classica Proteo, in dio dai mille volti. Con la sua prosa meravigliosamente accorata Chouraqui tocca problemi centrali. Va però considerato allo stesso tempo che Dio è indicato con più nomi nello stesso Tanakh. A complicare ulteriormente le cose, poi, interviene qualcosa che ha a che fare con il concetto stesso di traduzione. Perché ogni traduzione è una trasformazione, dunque un tradimento. Ma è tempo di rivolgerci direttamente a loro, i nomi di Dio in traduzione, per interpellarli e se possibile metterli alle strette, costringerli a rendere conto di sé.

Dio – Come non partire da qui? È questo il nome generico di Dio per indicare Dio, e scusate il garbuglio. Noi stessi lo abbiamo utilizzato facendo finta di niente nelle righe che precedono. Ma Dio non è una parola ebraica. I Settanta traducono theos (da cui il latino deus e quindi Dio) l’ebraico Elohim. Nel Tanakh Elohim indica non solo il Dio creatore, ma anche gli dei, per esempio quelli della Mesopotamia o dell’Egitto, e in alcuni passi con ogni probabilità angeli (detti anche benè ha-Elohim, figli di Dio) o divinità minori dell’antico pantheon semitico sopravvissute alle ultime redazioni dei testi biblici. Per fare un esempio, il versetto di Shemot/Esodo “mi kamokha ba-Elim Adonai (“chi è pari a te, Adonai, tra gli dei?”), ripreso nella liturgia, riferisce senza alcun imbarazzo di una pluralità di Elohim, dèi. La scelta della parola theos da parte dei Settanta si giustifica perfettamente se si tiene conto di questa pluralità e della pluralità analoga degli dei che affollano l’Olimpo.

SignoreTraduce letteralmente Adonai, plurale maiestatis del termine adon, “signore”, a cui si unisce il suffisso della prima persona plurale. Gli storici della lingua non hanno dubbi sul fatto che adon indichi prima “signore”, cioè ogni maschio adulto libero (tendenzialmente in posizione autorevole di capofamiglia) e solo successivamente, per derivazione, Signore. Adon descrive dunque un rapporto, quello tra la divinità e gli uomini di cui la prima è appunto “signore” o “signore dei signori”, adon ha-adonim. Ma fin dall’antichità l’espressione viene fissata nell’uso diventando di fatto un nuovo nome di Dio. Con lo sviluppo del cristianesimo il termine Signore, che come abbiamo visto descrive inizialmente (e continua a descrivere in seguito e ancora oggi) relazioni umane si presta a associazioni cristologiche. Da signore Gesù Cristo a Signore Gesù Cristo la differenza, come noto, è abissale. Questo, secondo Rivka Horowitz (Mendelssohn e la scienza dell’ebraismo, in La lettura ebraica delle scritture, a cura di Sergio Sierra, EDB) è uno dei motivi per cui nel Settecento il filosofo illuminista Mendelssohn, quando dovrà decidere come tradurre il nome di Dio, farà una scelta diversa da “Signore”. Ma su questo torneremo.

Altissimo – Traduce di solito l’ebraico Eliyon. “Altissimo” introduce una gerarchia, un confronto. Quindi un dio altissimo da una parte, dèi inferiori dall’altra.

Onnipotente – Così spesso viene reso l’ebraico Shaddai. Come Altissimo, anche Onnipotente è un termine di relazione, e infatti entrambi vengono utilizzati sia come nomi divini sia come attributi. La discussione sull’etimologia di Shaddai è in realtà ampia e aperta; tra le ipotesi più accreditate, e tuttavia dubbie, quelle di derivazione da parole che in accadico indicano “roccia” (quindi Shaddai sarebbe il “Dio della montagna”) oppure “demone”. Il commentatore medievale Rashi spiega il termine scomponendolo in she-dai, “colui che è sufficiente a se stesso”, “colui che basta a se stesso”; una lettura che non perde nulla del suo fascino anche se evidentemente fondata su presupposti diversi da quelli storici. Ancora una volta, la scelta di tradurre Shaddai con Onnipotente deriva dai Settanta, che si rifanno a una radice che indica “devastare”, “esercitare potere senza limiti”. Si tratta di una derivazione senza fondamento, che però l’abitudine e la tradizione continuano a riproporre nelle traduzioni moderne.

Geova – Qui c’è davvero poco da dire, perché tutto si fonda su un grossolano errore. Come noto il tetragramma YHWH (su cui torneremo oltre) almeno dall’epoca del Secondo tempio non viene pronunciato ed è sostituito nell’uso dal termine Adonai. Spesso per indicare la pronuncia nel rispetto del terzo comandamento sono aggiunti sotto YHWH i segni vocalici di Adonai e questo fatto, agli albori dell’età moderna, ha dato origine in ambienti non ebraici alla pronuncia Jehowa, da cui Geova.

Essere – In questo caso il tradimento insito nella traduzione è particolarmente accentuato perché viene mutuato un termine centrale della filosofia greca dal tempo di Parmenide. La lingua greca dispone dell’articolo determinativo in grado di trasformare l’infinito di un verbo in un sostantivo (to einai: l’essere), quella ebraica no. Quindi sebbene YHWH appartenga, da un punto di vista linguistico, all’area semantica del verbo hjh-hwh, “essere”, sembra fuorviante. Semplicemente perché una filosofia dell’essere nel pensiero biblico non c’è.

Eterno – L’Eternel, l’Eterno, è l’espressione con cui nel Cinquecento Calvino traduce il tetragramma nella sua Bibbia ginevrina, diventata riferimento per buona parte del mondo protestante. La scelta di Calvino è quella ancora oggi seguita dalla maggior parte delle bibbie protestanti. Quando nel Settecento Moses Mendelssohn traduce in tedesco il corpus biblico da una prospettiva ebraica arricchita però dalla tradizione filosofica fa una scelta analoga: der Ewige, l’Eterno appunto. Nel secolo successivo l’influenza della Bibbia di Mendelssohn è vasta. Storici dell’ebraismo come Zunz, rabbini leader della riforma come Philippson ma anche ortodossi come Bamberger, tutti ripropongono nelle loro traduzioni l’Eterno. Mendelssohn spiega il motivo della scelta citando passi talmudici, del midrash e dei targumim, le antiche traduzioni aramaiche, oltre a filosofi medievali come Saadià Gaon e Maimonide. Per Mendelssohn il nome Eterno riesce meglio di ogni altro a tenere insieme tre aspetti fondamentali della divinità: l’attributo dell’essere in ogni tempo, la necessaria esistenza e la provvidenza incessante. Va sottolineato in ogni caso che la decisione di tradurre YHWH con der Ewige non deriva (in primo luogo) dalla filosofia non ebraica e tantomeno dalla Bibbia di Calvino, nonostante Mendelssohn sia stato rimproverato in seguito di entrambe le cose. Allo stesso tempo, è vero che Eterno non trova facilmente conferma in passi biblici bensì nella letteratura ebraica di epoca talmudica già profondamente influenzata dall’incontro/scontro con la cultura ellenistica e romanocristiana.

Qui/Sempre Presente – Tra i critici di Mendelssohn va menzionato innanzitutto S.R. Hirsch, secondo il quale nella versione del filosofo illuminista Dio appare come l’Eterno del tempo remoto che dopo la creazione si sarebbe ritirato, nascondendosi in regioni inaccessibili. Ma YHWH, per Hirsch, è un Dio sempre vivo e presente che agisce con misericordia e compassione, aspetti che la traduzione Eterno perderebbe a tutto vantaggio di una divinità lontana e indifferente all’uomo. All’inizio del Novecento Rosenzweig e Buber tornano a criticare la scelta di Mendelssohn. Il Dio “Eterno” di Mendelssohn, scrive Rosenzweig, è un Dio statico come l’Essere dei deisti. Il Dio biblico che si rivela a Mosè non è un “Io sono” cristallizzato al di là del tempo e dello spazio, ma un “Io sono qui”, “Io sono con voi”. Quello che Rosenzweig e Buber hanno in mente è il rapporto io-tu, il Dio personale che scardina l’Essere necessario. Quando soffriamo, si chiede Rosenzweig, non ci rivolgiamo a un Ich bin Ewig (“Io sono Eterno”) bensì a un Ich bin Da (“Io sono Qui”). Insomma, Mosè non era un Platone e il suo Dio non un motore immobile capace di pensare eternamente soltanto se stesso. Alcuni studiosi hanno segnalato una vicinanza tra il forte accento posto da Rosenzweig sull’elemento personale e contingente e la filosofia della fede di Pascal e di Kierkegaard in cui il Dio come Essere necessario non riesce a dare risposta all’uomo sofferente attanagliato dalla scelta. In realtà lo stesso Mendelssohn, come abbiamo visto, considera fondamentale rendere conto della provvidenza di Dio che mai viene meno e in alcuni casi, per accentuare questa dimensione, traduce con Allgegenwärtig, “Sempre Presente”. L’intento di Rosenzweig è perciò chiaro, ma la critica a Mendelssohn forse eccessiva.

YHWH – Allora ha ragione Chouraqui quando sostiene che ogni traduzione allontani dal significato e vada rifiutata? È un’idea intorno alla quale negli ultimi decenni crescono i consensi. In fondo a chi non è capitato di sorridere di fronte a vecchie traduzioni di romanzi in cui anche i nomi dei personaggi erano tradotti? E se da tempo ormai si sceglie di non tradurre i nomi umani, perché non fare lo stesso con Dio? “L’energia contenuta nel tetragramma ebraico non è riproducibile”, annota rav Haim F. Cipriani nell’introduzione lessicale al Siddur curato per la comunità Etz Haim. “L’indicibilità del Nome è uno dei più profondi e misteriosi fondamenti dell’ebraismo, e così lo è anche l’impossibilità di sostituirlo con parole che abbiano un significato finito e netto”, continua Cipriani. Per questo in ebraico la lettura del nome di Dio “si presenta come un codice, pericolosamente ma volutamente vicino ad alcune forme verbali, cosa che ci richiede vigilanza, attenzione, rispetto costante nell’atto del leggere. Ogni volta che leggendo il testo ci accostiamo al tetragramma dobbiamo operare un mutamento sostituendo a ciò che vediamo qualcosa che non vediamo. Anche questa necessità di vedere oltre l’immediatamente visibile, e cioè di avere una lettura interpretativa della realtà, è parte integrante della spiritualità ebraica”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

2 Commenti:


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.