Hebraica Festività
Yom Kippur: la teshuvah reciproca

Yom Kippur ci chiama a riflettere sulla nostra relazione col divino e a ricominciare. Sapendo che, dall’altra parte, le porte sono aperte.

Qual è il ruolo di Dio a Yom Kippur?

Per rispondere alla domanda, bisogna riflettere sulla sua data e sui brani della Torah che si leggono per l’occasione. Biblicamente, la data di Yom Kippur è stabilita al 10 del mese di Tishri ed è descritta come una giornata di espiazione e pentimento. All’epoca del Tempio, essa divenne il centro di un importante rituale sacerdotale con la funzione di mantenere il legame tra il popolo d’Israele e il suo Creatore. A partire dal periodo rabbinico, la giornata ha preso invece una connotazione più intima, personale, in quanto occasione per riflettere con umiltà sulle nostre vite, sulla nostra tormentata relazione con Dio, tale, si capisce, a causa del nostro comportamento, del nostro orgoglio e rifiuto di prendere impegni. Ma questa pratica di introspezione e spinta al miglioramento non è un esplicito comandamento biblico: di fatto, nella Bibbia la funzione di Yom Kippur non è proprio del tutto chiara.

 

La seconda possibilità

A differenza delle altre festività bibliche, Yom Kippur non è legato al ciclo dell’agricoltura, né commemora eventi storici o teologici. Vi è tuttavia una tradizione – molto antica, parliamo del Seder Olam Rabbah, II secolo e.v. – che vuole il 10 di Tishri come il giorno in cui Mosè sarebbe tornato dal Sinai con le nuove Tavole della Legge. Il giorno in cui, quindi, dopo il peccato del vitello d’oro e la conseguente ira di Mosè che ha provocato la distruzione delle prime tavole, Dio ci ha offerto un’altra possibilità – e noi con Dio abbiamo fatto lo stesso.

Cosa fa quindi Dio in questo giorno?

Proprio come noi, Dio fa teshuvah, perdona i nostri errori dandoci anche l’opportunità di perdonare noi stessi. Un concetto strano, quasi spaventoso, quello di Dio che fa teshuvah. Ma per noi è necessario a mantenere un legame con il divino.

 

Un mondo umano, imperfetto…

Il mondo in cui viviamo non è più quello dorato dell’infanzia, che ci fa sentire sempre al sicuro grazie alla cura genitoriale. Il mondo in cui viviamo è un mondo imperfetto, in cui malattia e incidenti sono una possibilità concreta, in cui pur facendo del nostro meglio per trovare un senso e un ordine, dobbiamo comunque trovare un modus vivendi con l’assurdo e il caos che fanno ineluttabilmente parte dell’esistenza. Viviamo in un mondo di meccanismi incomprensibili, di improvvise inondazioni o tremende siccità, di brave persone che si ritrovano in situazioni negative senza averne responsabilità. Il nostro mondo è così fatto perché inevitabilmente connesso alla nostra natura di esseri umani. Se così non fosse, saremmo ancora nel Giardino dell’Eden sotto la protezione divina, senza la facoltà  di fare piena esperienza del mondo, di prendere decisioni, di essere adulti e responsabili.

Un concetto strano, quasi spaventoso, quello di Dio che fa teshuvah:

ma necessario per la nostra relazione col divino

La tradizione mistica dice che Dio avrebbe ritirato o contratto il Suo Sé Divino dal nostro mondo per farci spazio e consentirci di non essere sopraffatti dalla Sua presenza. E quando la totale presenza di Dio viene meno, inevitabilmente ci sono delle conseguenze.

 

…eppure ricco di scintille divine

Una parte di Dio è quindi separata dal nostro mondo, ma è anche vero che Dio ci ha fornito di capacità  e di comprensione, di testi che ci mostrano come accrescere la presenza divina nel mondo attraverso il nostro impegno; ci ha donato un’anima che porta al suo interno scintille divine, la facoltà di comunicare, di percepire, di coltivare relazioni, di essere supporto e conforto gli uni per gli altri; ci ha dato consapevolezza, discernimento morale, capacità di scegliere. Tutti questi sono doni divini e sono anche armi a doppio taglio: possiamo scegliere di non usarli, di snaturarli o di lasciare che ci snaturino.

Capire l’imperfezione del mondo umano è molto difficile per noi, ma anche per Dio. Egli, che ci ha creato e dato indipendenza di spirito, si aspetta che Lo cerchiamo. E a Yom Kippur, come noi sentiamo il bisogno di tornare, di fare teshuvah, di capire il senso della vita, anche Dio sente il bisogno di venirci incontro, di aiutarci nel processo di questo esame di coscienza, di compiere quel viaggio che per noi è troppo arduo, di fare teshuvah.

 

La scelta di non abbandonare, ma ricominciare

Dio ci perdona gli errori dell’anno appena passato, ci dà l’opportunità di riconoscerli, di ripararli e di lasciarceli alle spalle. Pensiamo a cosa succede nella Torah subito dopo l’episodio del vitello d’oro. Sarebbe stato così facile per Dio lasciarci perdere, ricominciare da un altro Popolo, consentire al dolore, alla rabbia e alla frustrazione di dettare la fine della relazione, ma questo non è quello che fa Dio. E non è nemmeno quello che facciamo noi. Se siamo confusi o arrabbiati, dubbiosi o feriti nel profondo, Yom Kippur ci richiama a Dio e ci chiede di impegnarci, di avviare un dialogo, di aprirci alla presenza divina con tutte le difficoltà che ne derivano.

Alla vigilia delle 25 ore di Yom Kippur, mentre riconosciamo che tutti noi abbiamo commesso errori e ne commetteremo in futuro, e ci chiediamo dunque quale sia il significato di tutto ciò, è importante che ci prendiamo il tempo per considerare che la risposta potrebbe stare semplicemente nel nostro essere qui, potrebbe trovarsi nel nostro rifiuto di accettare quanto è in serbo per noi, potrebbe dimorare nei nostri dubbi e frustrazioni tanto come in un senso di appagamento spirituale. In questo giorno, torniamo a Dio per scoprire che Egli si è già volto verso di noi e si aspetta che ci assumiamo la responsabilità della nostra identità; per scoprire che vuole perdonarci e indurci a perdonare noi stessi, confortarci ma anche lanciarci delle sfide, incoraggiarci a vivere la vita al meglio, a Sua immagine, facendoci strumento di riparazione di noi stessi e del nostro imperfetto mondo.

Rav Sylvia Rothschild
Rav presso la sinagoga Lev Chadash
Cresciuta a Bradford da padre rifugiato tedesco e da madre di origine lituana e bielorussa, in una famiglia sempre attiva nella sinagoga. Dopo l’università diventa assistente sociale psichiatrico e terapista; riprende a studiare al Leo Baeck College, e nel 1987 diventa – l’ottava donna rabbino d’Europa. Per 16 anni è stata rav  della Bromley Synagogue. Alla Wimbledon Synagogue ha sviluppato per 11 anni il primo esperimento di servizio di comunità condiviso (rabbinic job share). Adesso officia alla sinagoga Lev Chadash a Milano. 

I grew up in Bradford, UK, My father was a child refugee from Germany, my mother’s family had come a generation earlier from Lithuania and Belarus, and my family were active members of the synagogue.  After university I was a psychiatric social worker and trained as a therapist, then studied at Leo Baeck College graduating in 1987 as the 8th woman rabbi in Europe. I was the rabbi of Bromley Synagogue for 16 years, and then moved to Wimbledon Synagogue developing the first rabbinic job share which we did successfully for 11 years. Now serving Lev Chadash Milano.

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