Cultura
Che cos’è l’identità? Chiedetelo a Emanuele Fiano…

… Che risponde (o almeno tenta di farlo) nel suo libro “Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine”

Che cosa significa oggi essere ebreo? Che tipo di valori incarna l’ebreo contemporaneo? L’ebreo che in maniera diretta o indiretta ha avuto modo di intrecciare la propria vita con il dramma della Shoah e che ha dovuto immancabilmente sopportare le più disparate reazioni a questa componente della sua storia: dalle battute ironiche, a quelle più crudeli, che rimandano al piano terribile dei nazisti di trasformare i corpi delle vittime in saponette, fino alle espressioni di compassione, di apprezzamento, di positiva accettazione della diversità, come se essere ebreo comportasse, in ogni caso, una palese diversità identitaria.
«Io non mi nasconderò, non nasconderò mai niente, e sarò irruente e troppo spesso concentrato nel difendere la mia identità, sappiate che in realtà è un desiderio di conoscenza dell’altro, è una curiosità che nasce in difesa, ma senza mai rinunciare al sé, senza abbandonare un filo rosso lunghissimo che ti porti dietro che ogni tanto è pesante e ogni tanto ti avvolge quasi troppo, ma nel labirinto io non rinuncio a quel prezioso filo», scrive Emanuele Fiano, autore del libro Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine, pubblicato da PIEMME qualche mese fa, alludendo alla via dell’ebraismo come una controversa dimensione del viaggio interiore.

Nella lunga riflessione e analisi sul significato dell’essere ebreo, l’autore parte da molto lontano, pur fornendo una serie di definizioni e delucidazioni sull’origine e sull’etimologia di alcuni termini, egli avverte il lettore che non è semplice dare una risposta a quello che sembrerebbe inizialmente un interrogativo banale, anzi ipotizza una serie di risposte diverse, come la definizione di ebrei in quanto fedeli di una religione, o in quanto appartenenti a una tradizione o a una storia particolare. Queste possibili risposte, però, portano inevitabilmente ad un’altra serie di domande, ad esempio: in che consiste la differenza tra gli ebrei e gli altri, e da che cosa deriva la differenza? Si tratterebbe proprio di quella differenza che ha segnato il loro destino, una differenza di difficilissima comprensione. Egli stesso, analizzando l’origine della definizione di ebreo, sottolinea che questo termine appare per la prima volta nel libro della Genesi: è un aggettivo che riguarda Abramo, riferendosi a colui “che era passato” (Ivrì), dalla radice ebraica avar che significa “passare”, perché Abramo aveva oltrepassato il fiume Eufrate per raggiungere Canaan. Ebreo, dunque, come colui che viene da lontano, che ha oltrepassato un confine, che ha lasciato la propria terra e quindi, in un certo senso, uno “senza radici”.
Potrebbe essere dovuta proprio a questa origine l’accezione negativa e quindi la conseguente diversità, fino all’essere col tempo etichettati come appartenenti ad una razza “colpevole” e quindi da punire e da cacciare proprio perché ritenuti senza patria?

Implicitamente l’autore si pone questa domanda, rivestendola contemporaneamente dell’accezione contraria, cioè rivolta al positivo, e per spiegare la complessità di tale processo l’autore non esita a servirsi di riflessioni filosofiche, religiose, che implicano la conoscenza dell’inizio del “viaggio” percorso dall’ebreo e necessariamente dei suoi riferimenti biblici, che egli continua a fornire durante tutta la scrittura del libro.  Un percorso a tratti doloroso, a tratti illuminato dalla consapevolezza della dimensione profondamente etica dell’essere ebreo e del sentirsi tale: «Ho assimilato l’idea che l’ebraismo introduca il limite, la norma, l’ethos, come elemento primario ed essenziale della propria identificazione». In questa prospettiva, compito dell’ebreo è dunque sentirsi responsabile del proprio comportamento, responsabilità affidata alla coscienza e alle scelte di ognuno. E, ancora, l’autore afferma come l’uomo nell’etica dell’ebraismo sia al centro di un progetto di libertà intesa come limite all’istinto primordiale di onnipotenza presente nell’uomo. L’ebraismo, sottolinea l’autore, affida al senso di responsabilità di ognuno le azioni di cui deve rispondere.

Fiano segue un percorso guidato dai riferimenti biblici, dagli insegnamenti della Torah per dare un senso ai legami familiari, ai ruoli che si snodano all’interno delle relazioni di convivenza umana. Così l’analisi di questi rapporti e di queste figure (l’uomo, la donna, il fratello, ecc.) viene condotta ricordando figure fondamentali come Adamo, Eva, Caino, Abele, i quali hanno dato inizio all’avventura umana sulla terra.
Figure chiave che serbano dentro di sé i primi germogli di quello che poi sarà il comportamento dell’intera umanità nell’eterno bivio che separa le scelte umane tra il bene e il male: il primo di quelli che saranno una serie di passi verso questo bivio è la colpa di cui si macchiano Adamo ed Eva, con la scelta, consapevole o no, della disobbedienza. Non meno importante nella descrizione delle azioni che porteranno ad inevitabili conseguenze è l’uccisione di Abele da parte di Caino, crimine che quasi naturalmente rievoca tutti quelli che saranno in seguito definiti “crimini contro l’umanità” come quello tristemente noto della Shoah, oltre a tante altre stragi e distruzioni avvenute nella storia dell’uomo. Anche la violenza fratricida segna l’inizio della storia del mondo come scelta del male compiuta dall’essere umano. Ancora una volta il racconto biblico spiega questo passo, facendo intendere che si è trattato di una rinuncia all’etica della responsabilità verso la propria coscienza, e di conseguenza della responsabilità verso l’altro da sé sul quale si compie il male, infatti la scena del fratricidio viene descritta nella Torah in maniera scarna, senza pathos, senza drammatizzazione. La scelta stessa fa parte della natura umana, come una sua possibile declinazione e come un’eventualità troppo spesso ricorrente. Su queste riflessioni l’autore cita la Banalità del male di Hannah Arendt, interessato all’origine della violenza che semplifica e accorcia il passo verso una scelta quasi scontata.

Il libro è anche profondamente introspettivo: sulla vita dell’autore pesa come su molte altre vite umane l’ombra della Shoah. Figlio del sopravvissuto Nedo Fiano, Emanuele Fiano non può in queste pagine eludere l’inevitabile richiamo alla più grande delle tragedie, che dopo un lungo e colpevole silenzio, trova una prima via di riscatto nel processo Eichmann, che viene inteso come una svolta, come un rito collettivo che rappresentò per Israele il momento in cui il dolore personale diventava pubblico, e in definitiva il processo in cui si “inaugura” il ruolo del testimone della Shoah.

Eventi antichissimi si intrecciano con eventi più recenti, la storia intesse le proprie vicende con un filo lungo il quale si prova a dare un senso al susseguirsi degli eventi, partendo dagli episodi biblici cruciali che fanno sempre da sfondo alle profonde e lucide riflessioni dell’autore.
Un libro che scava fino alle radici, che va fino in fondo al significato delle parole e degli avvenimenti, un libro che cerca di riordinare i pezzi di un mosaico che la storia ha disperso ovunque, e anche un tentativo di incastrarli, seguendo l’insegnamento della Torah, seguendo le ripetute congiunzioni di causa ed effetto, ma anche seguendo il proprio sentire più profondo. Seguendo, cioè, il bisogno, tutto umano, di conoscersi e di riconoscersi, di riordinare la propria storia, di costruire la propria identità.

Emanuele Fiano, Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine, PIEMME, pp.176, 17,500 euro

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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