Cultura Cibo
12 storie di ingredienti, ricette e tradizioni sulla tavola del 2021

Una selezione delle storie più curiose e inattese intorno alla cucina

Un piccolo viaggio nel mondo culinario esplorato da joimag nel corso dell’anno. Storie da leggere, ma se cliccate sulle parole in rosso trovate l’articolo completo con relativa ricetta.

Bollo, il pane dolce sefardita. Un dolce molto simile e dal nome pressoché identico in luoghi relativamente distanti, almeno in epoche meno connesse di oggi, come il Veneto e la Toscana. In entrambe le regioni, tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento si sarebbe affermato un prodotto da forno tradizionalmente associato alle comunità ebraiche. Parliamo del bollo, un dolce tondeggiante, soffice e aromatizzato all’anice. Con le immancabili differenze, rilevabili peraltro anche da famiglia a famiglia, si tratterebbe qui di una preparazione dall’origine comune, portata in Italia dagli ebrei sefarditi dopo l’espulsione dalla Penisola Iberica. Il suo nome deriva dalla sua la quasi omonimia con il bolo o bola, termine che in ladino significa palla. Il pane dolce al gusto di anice è uno dei prodotti tradizionali raccolti nell’Arca del Gusto della Fondazione Slow Food per la Biodiversità. Secondo quanto si legge nella scheda di presentazione curata dall’onlus, il bollo sarebbe arrivato nella Maremma grossetana al seguito dei sefarditi cacciati dalla Spagna nel XVI secolo e si sarebbe diffuso sia tra gli ebrei europei sia tra quelli nordafricani. Prodotto ancora oggi a Pitigliano e a Sorano, viene descritto come compatto e dalla crosta color marrone. Così come avviene a Venezia, anche in Toscana “gli osservanti lo offrono in occasione del Sukkoth (…) e lo consumano anche per rompere il digiuno di Kippur, intingendolo in acqua zuccherata e limone”.

Hannukkah, i dolcetti sefarditi conosciuti come bimuelos. Accanto alle frittelle salate di patate e a quelle dolci alla confettura, entrambe di tradizione ashkenazita, esiste un campo sterminato di preparazioni raccolte sotto il nome di bimuelos. Il termine ladino ne denuncia le origini sefardite e la successiva diffusione, ma non offre grandi speranze per circoscrivere il discorso. Genericamente, infatti, in tutto il mondo ispanico con l’analogo bunuelos si intendono piccole preparazioni di pasta fritte, ampia categoria nella quale potrebbero rientrare praticamente tutte le fritture conosciute. Restringendo il campo e facendo riferimento alla tradizione ebraica, i bimuelos appaiono come palline di pasta fritta immerse poi nel miele o nello sciroppo. Ricorda qualcosa? Agli italiani sicuramente sì. Questo tripudio di dolcezza dorata, infatti, trova un parente molto stretto in Campania, dove più o meno nello stesso periodo in cui si ricorda il miracolo dell’olio si preparano i deliziosi struffoli, piatto tipicamente natalizio. Ma chi è arrivato prima?

La senape, dalla Genesi al museo di Middleton. Probabilmente quando si parla di senape il Talmud non è la prima cosa che viene in mente. Di certo è più immediata è l’immagine di un panino o di un bollito. Eppure, sembra che nei commenti alla Torah questa spezia sia citata oltre duecento volte. Certo, non vi si parla solo della salsa in senso stretto e tanto meno dell’aspetto in cui la conosciamo oggi, ma di semi e coltivazioni se ne dibatte in abbondanza. Ad essersene occupata ampiamente a livello accademico è stata Susan Weingarten, antropologa del cibo che in un simposio incentrato sull’alimentazione antica ha dedicato una conferenza, La senape nella letteratura talmudica, a uno dei semi citati nel Zera’im, titolo del primo dei sei libri della Mishnah nonché del Talmud che lo commenta. E se è vero che difficilmente uno statunitense rinuncerà alla sua quota di salsa gialla nell’hot dog, sono gli ebrei ad aver imposto sul mercato e sulle tavole dei ristoranti e delle case alcune delle più raffinate e pungenti varietà di condimenti, disponibili nei loro negozi di delikatessen fin dal loro arrivo in America nell’Ottocento.
Per lo stesso motivo, non è certo un caso se sia stato un ebreo, Barry Levenson, ad aver fondato nel 1992 il National Mustard Museum a Middleton, nel Wisconsin. Oggi la sua esposizione comprende circa 6.090 salse provenienti da oltre 70 paesi.

L’arte di fare lo strudel. Secondo lo storico del cibo Gil Marks, gran parte della cucina occidentale moderna affonderebbe le sue radici nell’Asia e lo strudel non farebbe eccezione. Certo, la sua versione attuale è il frutto di aggiunte e stratificazioni, ma il concetto iniziale troverebbe origine nelle abitudini dei popoli nomadi centroasiatici, che oltre mille anni fa cominciarono a stendere il pane non lievitato in sfoglie sottilissime e friabili. Grazie alla bassissima quantità di umidità, questi pani potevano essere conservati molto a lungo, pronti per essere reidratati e ammorbiditi con acqua al momento del consumo, con un procedimento che ricorda quello seguito dai pastori sardi con il pane carasau.
Tornando ai pani asiatici, pare che fossero preparati in gran quantità per accompagnare le famiglie in viaggio anche per anni e che la ricetta fosse rimasta immutata fino alla fine del XV secolo. In tale epoca, i cuochi ottomani avrebbero iniziato ad aggiungere dell’olio all’impasto, che nel frattempo aveva preso il nome di yufka, in modo da renderlo più elastico e quindi adatto a essere steso ancora più sottile. Da qui a farcirlo e a tagliarlo a pezzi sarebbe stato un attimo, tanto che dolci tipici turchi come il baklava o sfogliate salate come il sarebbero frutto di una prima rivisitazione di quei primi umili pani. Perché si parli di strudel, però, non basta avere una sfoglia sottile e friabile, e neppure un ripieno. Per avere uno strudel la pasta deve essere arrotolata intorno alla farcia, richiamando quel vortice indicato con questo termine in tedesco. Secondo quanto riportato da Marks nell’Encyclopedia of Jewish Food, alle origini della denominazione odierna ci sarebbe un gorgo formato dal Danubio nei pressi Vienna al quale la fantasia locale aveva fatto risalire l’immagine della pasta arrotolata.

Cotognata, una prelibatezza sefardita. Ci sono alimenti di cui basta pronunciare il nome per dare il via a una cascata di ricordi. La cotognata è uno di questi. Con chiunque se ne parli, è quasi inevitabile che, legati a questo impasto gelatinoso a base di mele cotogne, saltino fuori racconti e rimandi a persone vicine e lontane. La cosa curiosa è che, se il tempo è sempre al passato, il luogo pare non essere altrettanto definito. Restando in Italia, i cubetti di gelatina rossastra affollano allo stesso modo la memoria di abitanti del Nord come del Sud.
E se in Piemonte, dove pure è diffusa, se ne trova anche una versione solo simile nel nome e nella composizione come la cognà, che prevede l’impiego anche di frutta secca e di mosto, dalla Lombardia alla Sicilia, passando dalla Puglia e dalla Calabria, sembra che la ricetta non conosca grandi varianti. Qui, è rimasta identica nella sua semplicità e nei suoi pochi ingredienti: cotogne, zucchero e, a volte, succo di limone. Allo stesso modo, sembrano simili anche i rimandi a genitori, zii e nonni, ognuno con la sua storia, ma dove i cubetti o le losanghe avvolte nella carta oleata rappresentano una leccornia inscindibile dai tempi dell’infanzia. Da quanto detto, si possono già estrapolare le prime due informazioni. La prima è che siamo dinanzi a un prodotto dalla lunga storia, basato sulla lavorazione di un frutto un tempo diffuso lungo un po’ tutta la Penisola. L’altra è che negli ultimi decenni le cose sembrano essere cambiate, e di cotognata si parla più come di una delikatessen che di una conserva casalinga e popolare, per quanto prelibata.

Sikbāj, scapece e concia. O del conservare sotto aceto. La pratica di cucinare il cibo friggendolo prima nell’olio e mettendolo poi nell’aceto ha origini remote. C’è chi parla di antichi re persiani, chi di cuochi medievali egiziani. E chi di intraprendenti mercanti di mare ebrei. il professor Dan Jurafsky, autore del libro The Language of Food e curatore dell’omonimo blog di filologia culinaria. Sulle pagine del suo sito, il linguista dedica un ampio spazio all’analisi di una particolare tecnica di preparazione dei cibi chiamata escabeche. Lo studioso cita una storia, ambientata nel 912, in cui un mercante ebreo, Isaac bin Yehuda, sarebbe tornato in Oman recando in dono al sovrano un vaso di porcellana nera pieno di pesci d’oro: «Ti ho portato un piatto di sikbāj dalla Cina», avrebbe detto. La prima ricetta di pesce preparata in agrodolce risalirebbe però solo a qualche secolo dopo, il XIII, arriva dall’Egitto e prevede sia la frittura dell’alimento sia la sua successiva cottura e conservazione in un composto a base di aceto e spezie. Questa preparazione avrebbe poi viaggiato lungo un po’ tutto il Mediterraneo, sbarcando sulle sue coste e assumendo aromi e ingredienti tipici dei luoghi in cui approdava. Con la ricetta, anche il suo nome cambiava, e lo sikbāj delle antiche origini persiane, giunto ormai nelle regioni meridionali italiane, si sarebbe trasformato in schibecci in Sicilia e in scapece a Napoli, diventando scabecce una volta risalito fino a Genova. Giunto in Spagna passando dall’Occitania (scabeg), sarebbe diventato escabetx in catalano, per poi trasformarsi nell’escabeche che ancora oggi viene usato per indicare in terra iberica questo tipo di preparazione in aceto. Si sarebbe giunti così a un piatto che è parte integrante della cultura gastronomica partenopea, quelle zucchine alla scapece che a loro volta ritrovano delle gemelle nella concia di zucchine della scuola romana. O, per meglio dire, della cucina ebraica romanesca. A cambiare sarebbe solo il nome, che perde il riferimento all’antica parola persiana e assume quello di concia. C’è però anche un’altra possibilità. Mettendo da parte le analisi filologiche, la concia di zucchine potrebbe anche essere una produzione autoctona degli ebrei romani.

Le triglie nella cucina ebraica. Al pomodoro, in agrodolce o in un mix tra le due versioni? Parlando di triglie, la domanda è tutt’altro che oziosa. Se poi definiamo il piatto alla livornese, alla questione se ne aggiunge un’altra. Alla livornese o alla mosaica? Già. E perché non alla giudea, già che ci siamo? La storia di questo piatto, anzi, di questi piatti tipici della tradizione italiana tocca a sorpresa molti più tasti di quanti si potrebbe immaginare a una prima occhiata. Sfogliando i ricettari antichi così come le pagine del web, l’equivalenza che va per la maggiore è quella tra triglie alla livornese con triglie al pomodoro e tra queste e le triglie alla mosaica. Quindi, verrebbe da concludere, all’ebraica. E poi via libera alla storia degli ebrei di Livorno, portoghesi, conversos e sefarditi, giunti ad arricchire con le loro abilità commerciali e professionali la città dichiarata ufficialmente porto franco nel 1676. Secondo Claudia Roden, considerata un’autorità nel campo della storia dell’alimentazione ebraica, la faccenda è semplice. Dando per scontato che la cucina di pesce sia patrimonio indiscutibile di una città di mare come Livorno, ciò che rende ebraiche delle altrimenti semplicissime per quanto ottime triglie sarebbe la presenza del pomodoro.E che le triglie al sugo fossero chiamate alla mosaica a Livorno, così come la salsa rossa fosse detta alla giudia in quel di Venezia, sarebbe solo la prova del primato ebraico sull’impiego del nuovo prodotto. Prima però di suffragare l’equivalenza, può essere interessante ascoltare altre campane. Chi non è del tutto convinto che i pomodori siano così indissolubilmente legati alla tradizione ebraica è lo storico Elliott Horowitz, che in un suo articolo, Remembering the Fish and Making a Tsimmes, pubblicato nel 2014 su The Jewish Quarterly Review, fa notare come né un botanico del Settecento come Peter Collinson né uno chef ed esperto della cucina toscana come il nostro contemporaneo Giuliano Bugialli associno il pomodoro agli ebrei livornesi ma agli abitanti della città portuale in genere. Per Horowitz, il piatto di pesce al pomodoro sarebbe una pietanza locale acquisita semmai dalla comunità ebraica e non il contrario, tanto da essere appunto definita alla mosaica e non, come invece avviene altrove, come all’ebraica o alla giudia… Nel suo libro del 1981, Edda Servi Machlin, Classic Cuisine of the Italian Jews, basato principalmente sulla cucina della tradizione toscana, regione di provenienza dell’esperta di cucina nata a Pitigliano e naturalizzata statunitense, a proposito di triglie all’ebraica, la Machlin non citerebbe la versione al pomodoro, ma quella in agrodolce, con zucchero e uvetta.

Erbazzone, la torta d’erbe dall’ingrediente segreto. Un ripieno di verdure cotto tra due sfoglie di pasta. Detta così, potrebbe trattarsi di una torta salata qualsiasi, una delle tantissime della cultura gastronomica di tutto il mondo. Se si aggiunge che nel ripieno c’è del formaggio e che l’impasto che compone il guscio non è lievitato, il campo di indagine si restringe, anche se di poco. Sciogliendo il mistero, si sta qui parlando di un prodotto tipico emiliano, anzi, di Reggio Emilia, noto con il nome di erbazzone. Il discorso potrebbe concludersi già qui, perché saremmo palesemente fuori tema. E invece. E invece, a detta degli stessi studiosi dell’eccellenza emiliana, sembra che questa preparazione abbia origini ebraiche. Ma questa è solo la conclusione (e neppure l’unica possibile) di un discorso da prendere un po’ più alla lontana. Di sicuro, ebrei italiani, giunti da Roma, e sefarditi, in fuga dai territori spagnoli o sotto la tutela degli Este tra Ferrara, Modena e Reggio, e dei Medici a Livorno, avrebbero tutti contribuito a creare quell’equilibrio di morbidezza e friabilità noto con il nome di erbazzone, il risultato della collaborazione tra i popoli.

Challah, storia di un nome, di un pane e dell’intreccio di cinque ingredienti. La parte per il tutto. La challah potrebbe essere definita così, come una sineddoche. Morbido, dorato e intrecciato, il pane di Shabbat prenderebbe il nome da una sua parte, da una porzione di impasto da offrire per precetto a Dio. Andando con ordine, e analizzando i termini così come compaiono nella Bibbia, la parola challah in origine non si sarebbe riferita né al pane né alla sua parte, ma genericamente allo spessore della preparazione, tipico degli impasti speciali, da cucinare con più attenzione rispetto ai comuni pani piatti cotti su pietre o piastre roventi. Al tempo stesso, nel Libro dei Numeri (15: 18-20) si legge che challah era la porzione di pane da offrire ai sacerdoti, i kohanim, per il loro sostentamento, “in modo che i sacerdoti, che sono sempre occupati con il servizio divino, vivessero senza alcuno sforzo” (Sefer ha-Hinnukh, n. 385). Farina, acqua, olio, zucchero e semi ne fanno la rcetta più comune. Viaggio intorno alle vicende del pane per Shabbat.

Fish and chips: le connessioni con la cultura gastronomica ebraica. Qui si parla di un particolare tipo di pesce, in genere merluzzo o comunque a polpa bianca, tagliato a filetti, insaporito con sale e spezie e quindi passato in una pastella che ne preserva la compattezza assicurandogli gusto e morbidezza dopo il passaggio nell’olio bollente. A perfezionare il tutto ci pensano le chips, altra bontà mangiata in mezzo mondo dalle origini non strettamente inglesi. Secondo i non pochi studiosi che si sono dedicati all’argomento (ebbene sì, la questione è dibattuta), è proprio dall’abbinamento delle due preparazioni che si dovrebbe partire. La prima voce autorevole che si è alzata al riguardo è stata nel 1989 quella del professor John K. Walton, ai tempi insegnante di Storia dell’Università di Lancaster. Secondo i suoi studi, il primo negozio di fish and chips in Inghilterra sarebbe stato aperto nel 1863 a Mossley, nell’attuale Manchester. Il colpo di genio sarebbe venuto a tale John Lees, proprietario di un chiosco presso il mercato locale. Secondo Claudia Roden, autrice nel 1996 dell’imprescindibile Book of Jewish Food, il primo rivenditore di pesce fritto e patatine sarebbe stato invece Joseph Malin, un immigrato ashkenazita dell’East End londinese. Aperto nel 1860 e attivo per oltre un secolo, il “chippie” fondato da Joseph si sarebbe guadagnato pure il riconoscimento della National Federation of Fish Friers, con tanto di targa apposta nel 1968 che ne attestava il primato.

Lo sapevate che il risotto giallo… non è un piatto milanese? O meglio, lo è diventato, ma in principio era una ricetta per lo Shabbat. Secondo quanto riportato da Claudia Roden, che cita a sua volta lo studioso di cucina veneta Giuseppe Maffioli e la sua Cucina veneziana, le stesse limitazioni della kasherut avevano favorito lo sviluppo di una notevole fantasia nello sfruttare i prodotti locali consentiti. Il discorso di entrambi gli scrittori si concentra in particolare sulla cucina del ghetto di Venezia, in cui il riso si arricchiva di tutti gli ortaggi possibili e immaginabili, dai piselli ai carciofi, dalle zucchine agli spinaci, oltre che di pesci e di pollame. Per Wright, il suo modello sarebbe stato il Riso col Zafran degli ebrei veneziani, secondo la Roden, la specialità meneghina si rifarebbe a una antica specialità in uso sia nel ghetto di Venezia sia nella comunità di Ferrara.

L’oca, il maiale kasher. Troppo grossa per volare, è noto che l’oca non può muoversi granché. Questo però non le ha impedito di fare lunghi viaggi nel corso dei millenni. Addomesticata dagli antichi Egizi, era già nota al popolo di Israele almeno tremila anni fa, tanto da essere presente, sembra, perfino sulla tavola di re Salomone. Di sicuro, faceva bella mostra di sé nei banchetti dei Romani, che avevano acquisito l’uso di ingrassarla, c’è chi dice già per consumarne il fegato, più credibilmente per evitare che prendesse il volo, restando così legata ai cortili o al massimo ai piccoli campi in cui poteva essere facilmente allevata. L’oca ha conosciuto una importante diffusione anche nel settentrione italiano, in particolare in Veneto e in Lombardia. Come già accennato, la relativa facilità di allevamento di questi animali anche in spazi angusti ne aveva favorito la diffusione nei nuclei urbani oltre che nelle aie delle case contadine. Se a questo uniamo la loro generosità e versatilità, non dovrebbe stupirne la diffusione a Venezia, in quello che era stato il primo ghetto in assoluto, istituito nel 1516. Qui, a causa di un’epidemia scoppiata tra le oche nel 1830, ne era stato affidato il censimento al medico Giuseppe Levi, che aveva contato la bellezza di 1580 capi, “praticamente un’oca per ogni ebreo all’epoca residente in città, il che va anche a sottolineare la centralità dell’oca nel mangiare alla giudia” come sottolinea Donatella Calabi nel suo libro Venezia e il Ghetto. Non troppo lontano, nella confinante Lombardia e nella Bassa Padana, le oche erano tra le specie più allevate nei cortili delle cascine, così come erano diffuse le modalità di preparazione e di conservazione delle loro carni, uno su tutti il prelibato prosciutto d’oca di Ferrara.

 


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