Cultura
Cos’è la vendetta?

Una mostra al Museo ebraico di Francoforte

L’argomento non è dei più leggeri. Ed è forse anche per questo che i curatori di Rache – Revenge l’hanno presa un po’ alla lontana. Perfino con tracce di ironia, quando possibile. La mostra che il Museo Ebraico di Francoforte  dedica fino al 3 ottobre 2022 alla vendetta si apre così con una mazza da baseball. Quella che il sergente Donnie Donowitz, il Bear Jew degli Inglorious Bastards di Quentin Tarantino, usava come arma per spaccare il cranio ai nazisti.

Foto © Lukas Pichelmann

L’oggetto di scena introduce a un viaggio lungo le ambivalenze di un concetto ben radicato nella cultura ebraica e attraverso le sue diverse espressioni, nella più recente cultura pop così come nei testi biblici. Se da una parte l’Eterno afferma che la vendetta sarà sua, e lo dimostra ogni volta in cui scaglia la sua ira sui peccatori, dal diluvio alle piaghe d’Egitto o la caduta di Sodoma e Gomorra, dall’altra la Bibbia racconta anche di atti di vendetta di individui che agiscono per conto di Dio. In mostra vengono ricordati in particolare due di questi, Sansone e Giuditta. L’uno impegnato nel massacrare i Filistei, l’altra colta nell’atto di decapitare Oloferne, capo dell’esercito assiro, come rappresentato da Japoco Ugazzi nella tela giunta a Francoforte dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze.

L’attesa di una redenzione per mano divina guida invece le preghiere e le invocazioni della tradizione rabbinica, che si interroga per quanto tempo ancora il popolo ebraico dovrà subire ingiustizie prima che Dio intervenga contro i suoi oppressori. L’esposizione affronta tale argomento insieme al modo in cui questa tradizione è stata reinterpretata nei secoli passati dalla Chiesa e nei miti della cospirazione ebraica e utilizzata per legittimare, paradossalmente, ulteriori atti di violenza antisemita.

Fedele al suo sottotitolo, che recita Geschichte und Fantasie – Storia e fantasia, Revenge alterna la narrazione storica a quella fantastica, intrecciando religione e mitologia, realtà e finzione. Prendendo le mosse dalla distanza culturale tra un tempo antico in cui l’occhio per occhio era la norma e un presente in cui la vendetta si colloca al di fuori della norma giuridica accettata e condivisa, la mostra toglie dall’ombra un concetto mai completamente superato né universalmente rifiutato. Del resto, di che cosa vivono i supereroi dei cartoon se non di una giustizia al di sopra della legge, che compensa ingiustizie lasciate impunite?

I curatori hanno scelto a questo proposito di dedicare un’ampia parte dell’esposizione a figure di carta palesemente ispirate al Golem di Praga e a Lilith, la prima sposa di Adamo. Il gigante di argilla inizialmente simbolo della creazione si è evoluto prima in protettore e vendicatore delle comunità ebraiche e poi in personaggio dei fumetti. La creatura femminile nata insieme al primo uomo e poi diventata essere demoniaco che minaccia le partorienti sarebbe invece diventata una icona femminista e un modello per il secondo movimento di liberazione delle donne. Entrambi dopo il 1945 sarebbero entrati a far parte anche della cultura popolare sotto forma di supereroi che combattono i cattivi vendicando gli oppressi.

Protagonisti insieme a libri e documenti d’epoca della sala denominata Archivio del presente, i cartoon concludono un percorso che ha già analizzato la figura del vendicatore mettendone in luce non solo i lati eroici ma anche gli aspetti più ambigui e oscuri. Accanto ai personaggi fantastici che nei fumetti americani combattono i malfattori, o alla serie di videogame Wolfenstein, nata negli Ottanta e incentrata sulla caccia ai nazisti, la sezione storica di Revenge parla di personaggi veri che nella storia furono costretti a muoversi fuori dai confini della legalità. Si ricordano così quegli ebrei sefarditi che, dopo la loro espulsione dalla Spagna, divennero pirati e attaccarono le navi della corona spagnola, oppure gli “ebrei mendicanti” che nella prima età moderna si organizzarono in bande di vagabondi dedite alle rapine. Si parla anche di quegli immigrati ebrei della costa orientale americana che all’inizio del XX secolo, per sfuggire alla povertà, si unirono in bande mafiose, prima tra tutte la cosiddetta Kosher Nostra, che operava secondo le proprie leggi.

Foto: Ilya Ehrenberg

Nella sala denominata Nakam l’attenzione si concentra invece sulla vendetta nei confronti dei nazisti, negli anni che vanno dal 1933 al 1945 e oltre. Il nome scelto per questa sezione corrisponde al termine ebraico che significa vendetta e si rifà in particolare all’omonimo gruppo che dopo il 1945 si riunì intorno allo scrittore e partigiano Abba Kovner con il progetto di eliminare quanti più tedeschi possibile per riscattare i 6 milioni di ebrei (ai tempi il numero era già noto) sterminati nei campi nazisti. Entrambi i loro piani, sia quello di avvelenare le falde acquifere di importanti città della Germania, sia quello di cospargere di arsenico il pane destinato ai prigionieri tedeschi, non portarono però a nessun risultato fatale.

Nella stessa sala si affrontano anche figure come quella di David Frankfurter, che pubblicò le sue memorie nel 1948 intitolandole Nakam. Nel 1936 Frankfurter sparò a Wilhelm Gustloff, fondatore del Partito Nazionalsocialista svizzero, in risposta alle crescenti politiche antiebraiche attuate in Germania. Non a tutti noto, questo attentato è accostato a quello ben più famoso compiuto da Herschel Grynszpan contro Ernst vom Rath. L’assassinio fornì il pretesto per i pogrom di novembre, comunemente indicati come la Notte dei Cristalli e in realtà già programmati da tempo. La mostra non ne tratta direttamente, ma segue invece il punto di vista di Grynszpan, che aveva reagito con un colpo di pistola alla cosiddetta Polenaktion, ossia alla deportazione nel 1938 nella terra di confine tra la Polonia e il Reich tedesco di 15-17mila ebrei polacchi, tra cui i suoi familiari. La mostra tenta di riscattarne l’immagine, altrimenti connotata negativamente.

La memoria torna protagonista infine della sezione visivamente più semplice e insieme toccante dell’esposizione. Si tratta di una sala le cui pareti riportano le testimonianze di alcune delle vittime della Shoah. Sono state selezionate dal curatore Janis Lutz, che ammette di essere stato sopraffatto dalla mole di testi esaminati e di non averne esposto che una minima parte. Quello che si vede proiettato sul muro, esposto in bacheca e stampato su fogli a disposizione dei visitatori è stato tratto dai diari, dalle scritte sui muri e sulle lettere delle persone assassinate nei campi ed esprime la volontà di vendetta e di riscatto, almeno da parte dei discendenti, per tutto il male subito.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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